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Al calare del sole sul campo della Città del Ragazzo, appena fuori Ferrara, l’allenatore degli Allievi interprovinciali Rossano Casoni fischia il termine della classica partitella di fine allenamento. Classe 1969, nato a Portomaggiore e tifosissimo della Spal, Casoni è al timone dalla scorsa estate di una squadra che prende parte al campionato di categoria da fuori classifica, a causa della presenza di avversarie appartenenti al panorama dilettantistico. Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio lui e il suo quotidiano lavoro con i giovani biancazzurri.

Mister, partiamo dal principio: la sua carriera da allenatore è agli inizi dopo una vita passata in mezzo a un campo.
“Sì, ho giocato da centrocampista per dieci anni nella vecchia Serie C, e per altrettanti nell’ex Interregionale, militando in diverse squadre. Crevalcore, Vis Pesaro, Viareggio, Imola e Forlì sono state le più importanti. A quei tempi il Crevalcore era in serie C e una volta affrontammo la Spal. Una volta smesso ho iniziato allenando il Mezzolara in serie D, poi ho trascorso un anno a Comacchio durante la gestione Benasciutti e infine l’anno scorso ho accettato la chiamata della Giacomense per allenare la squadra Berretti”.

Che differenze ci sono tra l’allenare una prima squadra e una formazione delle giovanili?
“La differenza sostanziale sta nel risultato: quando alleni i grandi è un aspetto fondamentale, mentre per come intendo io il ruolo di allenatore nel settore giovanile, credo che la ricerca dei tre punti sia un aspetto secondario. Per quanto riguarda il sistema di allenamento e in generale i tipi di esercizi proposti ai giocatori non ho trovato grandi differenze, quello che proponevo ai grandi  lo propongo anche ai ragazzi degli Allievi. Probabilmente è più agevole la cura del gesto tecnico, cosa che in serie D è più complessa, i giocatori sono già formati e i vecchi si stancano prima”.

Come è nato il proposito di passare dal calcio dilettantistico a quello professionistico giovanile?
“Sinceramente è stata una cosa abbastanza casuale. Sono originario di Portomaggiore e calcisticamente quella zona non offre una vasta gamma di alternative, soprattutto se quando si è reduci da un esonero. Il mestiere dell’allenatore di calcio richiede anche una predisposizione nell’offrirsi alle squadre, l’abilità di coltivare vere e proprie pubbliche relazioni. Un atteggiamento che, purtroppo, non è nelle mie corde. Decisiva è stata la conoscenza di Davide Vagnati: abbiamo frequentato insieme il corso per allenatori e da questo legame è nata la mia avventura con la Giacomense”.

Dopo il primo anno passato ad allenare i ragazzi della Berretti, è passato agli Allievi, in un campionato in cui la squadra è fuori classifica. È difficile tenere alta la tensione senza la prospettiva di una graduatoria da scalare?
 “Prima di tutto c’è da dire che il cambio da Giacomense a Spal ha giocato tanto in questo senso. Ricordo ad inizio campionato quando i miei ragazzi indossavano per la prima volta la casacca biancazzurra: vestire quei colori era già un grandissimo stimolo per loro. Per quanto riguarda le partite di campionato, cerco sempre di trovare nuove motivazioni, anche quando le partite sono già decise dopo pochi minuti dal punto di vista del risultato. Dico sempre loro che non ha senso vincere dieci a zero giocando male. Meglio segnare meno e giocare nel miglior modo possibile”.

Dopo la metarmofosi da Giacomense a Spal, sperava di poter mantenere il posto alla guida della Berretti? Sarebbe stata una vetrina notevole.
“No, alla fine della scorsa stagione ero già d’accordo di allenare gli Allievi, in quanto la dirigenza aveva già preso una decisione riguardo il futuro allenatore della Berretti. In termini pratici non cambia molto, se non i carichi di lavoro e piccole altre cose legate all’aspetto tecnico. Evidentemente la società deve credere molto nelle mie doti di insegnante se mi ha affidato un gruppo di ragazzi più giovani (ride)”.

Adesso che ha preso confidenza con il ruolo di allenatore del settore giovanile, accetterebbe un posto su una panchina di Eccellenza nel caso le venisse proposta?
“Qui mi sto trovando molto bene, quindi spero di continuare quello che sto facendo. L’unica cosa che non farei è quella di allenare un gruppo di ragazzi ancora più giovani rispetto a quelli con cui lavoro adesso. Non mi sentirei completamente a mio agio, soprattutto perché con adolescenti e bambini bisogna fare un grosso lavoro di vera e propria educazione. Sono infatti convinto che a un allenatore di calcio al giorno d’oggi spetti anche il compito di educatore, ma il grosso deve essere fatto dalla famiglia. Nella mia esperienza ho sempre avuto a che fare con persone già indirizzate da questo punto di vista, a cui bisognava – e bisogna – dare regole all’interno dello spogliatoio e del campo. Sperando che ne facciano tesoro per la vita quotidiana”.

Ha citato il ruolo della famiglia nella vita dei giocatori. Sappiamo che i rapporti con i genitori dei ragazzi possono essere problematici a volte. Lei come gestisce questo aspetto?
“Anche in questo caso molto dipende dall’educazione. Per quanto mi riguarda il rapporto con i genitori è buono, non mi sono mai state chieste spiegazioni. Ho la presunzione di dire ai miei ragazzi di ascoltare le mie indicazioni e non quelle che provengono dall’esterno della rete e per ora va tutto a gonfie vele, c’è un buon rispetto dei ruoli. L’importante è sapersi confrontare. Prima di Natale il nonno di uno dei miei ragazzi ha organizzato una serata a base di pizza invitando tutti i giocatori e i relativi genitori. Per me è stata la prima vera occasione per conoscerli meglio e capire che si può fare gruppo anche ben oltre lo spogliatoio”.