Nel 1965 il campionato iniziò il cinque settembre e io mi trovavo a Rimini, dove avevo trascorso un’estate da sballo coi miei amici, senza neanche l’ombra di un genitore. Era la prima volta che accadeva e, se oggi ci ripenso, i ricordi riaffiorano con prepotenza, esumando episodi, atmosfere, colori, suoni, odori che ancora mi emozionano. A Rimini, quell’anno, eravamo quattro scapestrati ragazzi che si credettero adulti e provarono l’ebbrezza della libertà conquistata. Di quell’esperienza ricordo una sensazione di felicità totale che mi sembrava non dovesse finire mai. Passato e futuro, con relativi rimpianti e incognite, per un po’ non esistettero, ma fu solo un eterno presente ricco di affetti ed emozioni mai provati prima. In un clima goliardico che sfociava spesso in situazioni comiche ed esilaranti, ci raccontavamo i nostri successi amorosi sparandole grosse, millantando trofei piuttosto improbabili.
Sapevamo infatti che la realtà era ben diversa, cioè che a quel tempo i corpi delle ragazze erano segnati a macchia di leopardo, con zone off limits impenetrabili persino ai bulldozer. Figuriamoci una fragile manina che in solitudine cercasse di rimuovere con delicatezza certi steccati! Ne interveniva subito un’altra a distoglierla con forza da quel “turpe” tentativo di violenza. Ci poteva essere la luna più piena del mondo riflessa su un mare liscio come il velluto, tra uno sfavillio di stelle come gemme trapuntate nel cielo, ma superare i limiti consentiti era un’impresa da Titani. Era la legge di allora, quella stessa che non permetteva alle ragazze di trattenersi fuori, la sera, oltre una certa ora: neanche in villeggiatura. Così ci accontentavamo della passeggiata serale sul lungomare, mano nella mano delle nostre giovani innamorate. Spesso ci fermavamo al piano bar dove suonava l’orchestra del grande Secondo Casadei, del quale il nipote Raoul avrebbe raccolto lo scettro e fatto conoscere al mondo la grande musica romagnola.
Il Grand Hotel non ci diceva ancora nulla, se non ispirarci una certa curiosità di sapere a chi appartenessero le fuoriserie che spesso vi si accostavano. Quell’imponente palazzo costrito ai primi del Novecento non aveva ancora quel fascino felliniano da cui saremmo stati soggiogati negli anni a venire, e Fellini non era al centro dei nostri interessi. A quel tempo ci bastavano le zazzere al vento e le zampe di elefante all’estremo opposto e, per il resto, nebbia.
La realtà era che credevamo di essere adulti, ma non lo eravamo affatto. In quell’estate, affacendati in tali altre faccende, pensammo poco alla SPAL, per la quale avevamo trepidato un anno intero, festeggiando alla fine il ritorno in serie A. Così ci prendemmo una pausa, confidando nel fiuto geniale di Mazza nel costruire la squadra per un campionato onorevole. Ma sulla spiaggia di Rimini restammo attoniti ai colpacci di mercato del Napoli, che aveva messo Sivori e Altafini al centro dell’attacco, con Gastone Bean all’ala sinistra; poi Stenti, acquistato dal Vicenza, a ricomporre, con Panzanato, una coppia di difesa tra le più esperte in circolazione. Alla fine, però, sarebbe stato solo terzo, dietro a Inter e Bologna. Noi invece ci saremmo salvati all’ultima giornata per il rotto della cuffia. Fummo felici dello scampato pericolo e lo festeggiammo con lo stesso entusiasmo della precedente promozione. Ancora non sapevamo che di lì a un paio d’anni l’Olimpo del calcio italiano non sarebbe più stato affar nostro.
Cinquant’anni sono passati da quei fatti, amici lettori, e Rimini ha di nuovo bussato alla mia porta. La Corte dei Malatesta ha dovuto inchinarsi, domenica scorsa, alla corazzata di casa d’Este, ma ha innescato in me un amarcord che ho assaporato con dolcezza, prima di riporlo di nuovo nel profondo del mio cuore. Ho voluto condividerlo con voi, nell’intento di raccontare un “come eravamo” che oggi forse fa sorridere o desta scalpore. Ma al fondo di tutto questo, amici, ripetendo una celebre affermazione della compianta Virna Lisi in un celebre film dei Vanzina, sta il fatto che “allora ci batteva forte il cuore”.