Sono così emozionato di essere in presenza di Oscar Massei da dimenticare l’avvio della registrazione. Quando me ne accorgo gli sto parlando dei lavori in corso al Centro di via Copparo, che presto tornerà a sfornare campioni, come al tempo di Paolo Mazza. Ho preparato un foglio con delle domande, ma quasi subito capisco che il genere “intervista” non fa per lui. Il Capitano mostra di preferire la conversazione, quella franca e leale di chi ama la compagnia e i diletti che questa procura. Essendo venuto a trovarlo, non posso rifiutare il suo invito a pranzo. È la regola per chiunque gli faccia visita e anch’io mi ci devo adeguare. Così mi sento onorato dalla sua squisita ospitalità e ringrazio il destino di avermi concesso, alla mia non più verde età, di fare conoscenza con uno dei più osannati miti della mia lontana giovinezza.
Mi ha abbracciato sul pianerottolo di casa come si fa con un amico ritrovato dopo tanto tempo. Mi ha fissato intensamente in volto, scorgendo nei miei lineamenti qualcosa di noto. Gli ho ricordato il luogo di Ferrara dove un tempo ci si incontrava e lui subito ha coinvolto “il Bozza”, il suo cane, e Carlo Novelli, che spesso lo accompagnavano. Il fiume dei ricordi scorre impetuoso e per qualche minuto non si parla che della simpatia di Bozzao e di Carlo Novelli, coi quali giocò tanti anni in biancazzurro. Intanto mi ha introdotto nel suo ampio soggiorno, dove la conversazione si arricchisce per associazioni e immagini. Ad un certo punto si va a parare sul vivaio di Mazza e sul Centro di via Copparo, ed è a questo punto che mi ricordo di avviare la registrazione, della quale trascrivo fedelmente il contenuto.
“E’ stato il capolavoro di Mazza, quello. Il primo Centro in Italia, costruito ancora prima di Milanello. Quanti campioni ha sfornato!”.
Tanti davvero. Solo con uno, mi ricordo, non c’è stato niente da fare: Ezio Vendrame. Se lo ricorda?
“Eccome, se lo ricordo! Un grande talento calcistico sprecato. Era un bravo ragazzo, eh: fantasioso, sognatore. Ricordo che suonava la chitarra. Aspetto hippy, e anche educato. Però gli piaceva divertirsi e il calcio lo considerava più uno svago che una professione”.
È diventato uno scrittore adesso, lo sa?
“Certo. Ricordo la sorpresa che provai di vederlo al Festival di Sanremo, una decina d’anni fa. È diventato una persona importante. Pensare che quando era alla Spal un giorno sua madre mi telefonò per raccomandarmi di tenerlo d’occhio perché era preoccupata. Ma a Mazza uno così non andava bene e, appena ha potuto, lo ha mandato via. Ed è stato un peccato perché, ripeto, era un grande talento calcistico. Dopo è passato anche per il Napoli”.
Lo aveva voluto l’allenatore Vinicio, ma poi gli fece giocare solo tre partite, premendo perché l’anno successivo andasse via.
“Ah sì? Penso che in quel ragazzo ci fossero problemi legati all’infanzia…”.
Aveva trascorso alcuni anni in un collegio piuttosto duro che gli fece odiare ogni forma di disciplina.
“Il problema sta proprio lì: quando manca la famiglia, poi se ne pagano le conseguenze. Però devo dire che era un ragazzo educato, rispettoso. Non ha mai avuto nessuno screzio coi compagni e si è sempre comportato bene con tutti. Se si fosse impegnato come gli altri, sarebbe stato un fuoriclasse del calcio italiano”.
Oscar parla un italiano che risente del lungo periodo trascorso in Argentina, terminato solo un mese e mezzo fa. La sua inflessione ricorda quella di Papa Francesco quando si rivolge al mondo con il tono pacato della saggezza e della sua infinita umanità. È piacevole ascoltarlo, mentre i suoi occhi fissano i tuoi come se le parole, da sole, non bastassero a comunicare il suo pensiero.
Ho con me i bei libri Il calcio a Ferrara e Ars et Labor coi quali già intrattenni Osvaldo Bagnoli, ma questa volta ho aggiunto il mio, appena uscito per Faust edizioni, Febbre di Spal, del quale gli faccio dono. Glielo illustro un po’ a grandi linee: mi ringrazia e mi dice che non vede l’ora di leggerlo. Gli cade l’occhio sul prefattore, Gigi Delneri.
“Delneri? Bel giocatore. Me lo ricordo bene: sapeva giocare al calcio ed era anche un bravo ragazzo. Ho seguito la sua carriera d’allenatore e mi hanno fatto piacere i buoni risultati che ha ottenuto”.
Vede, in questo libro ci sono interviste a tanti suoi compagni. Ebbene, una costante che continuamente emerge dalle loro opinioni è che lei era un leader, un punto di riferimento che dava sicurezza.
“Ma noooo! – si schernisce – Il mio ambiente naturale era il campo. Lì cercavo di essere l’uomo d’ordine, il regista che faceva girare la squadra. Fuori dal campo mi sentivo una persona normale, per niente autoritaria. Mi piaceva dialogare, soprattutto coi più giovani. Mazza ne prendeva tanti dalla serie C, per valorizzarli e venderli per far quadrare il bilancio”.
Mazza ha mai tentato di venderla?
“Sì, più di una volta, ma io ho sempre rifiutato. A trent’anni sarei potuto andare al Milan, dove Nereo Rocco mi voleva. Sono rimasto alla Spal fino a trentaquattro anni, quando ho smesso a causa della labirintite”.
Mi ricordo quando si accasciava improvvisamente tenendo tutti col fiato sospeso…
“Ah, dovevo uscire dal campo qualche minuto perché mi girava la testa e cadevo per terra. Mi stendevo e restavo così finché mi prendeva una violenta sudorazione. Poi cominciavo a riprendermi e rientravo in campo. Molte partite però non le giocai neanche: nell’anno della retrocessione feci sì e no dieci partite. Tutto era cominciato per un colpo subito in una partita giocata a Berna contro una squadra tedesca, mi pare per la Coppa delle Alpi. Saltammo in due per prendere la palla di testa. Io la presi e l’altro mi colpì allo zigomo. Mi portarono negli spogliatoi che sembravo morto. Era il primo tempo e quando mi svegliai era già il secondo tempo inoltrato. Da lì cominciò il calvario, che durò due anni e mi indusse a smettere di giocare. Avevo già preso il patentino a Coverciano e così cominciai la carriera di allenatore”.
Ma perché non cominciò dalla Spal?
“Perché c’era Mazza. Io non ce l’avrei mai fatta a lasciar fare tutto a lui. In nove anni ho fatto in tempo a conoscerlo bene. Mi ricordo di quella volta con Ferrero, mi pare nel secondo anno. Ferrero aveva allenato l’Inter, proprio quando c’ero io, poi la Fiorentina e parecchie altre squadre, quindi ne sapeva di calcio. Un uomo po’ burbero, ma capace. Solo che nessuno gli aveva detto com’era fatto Mazza”. E qui il Capitano si lascia andare ad una divertita risata. “Un giorno eravamo in sede per preparare la partita alla lavagna. Ferrero ci sta spiegando ruoli da coprire e schemi da svolgere quando arriva Mazza, che prende in mano la situazione. Ferrero, che era seduto al mio fianco, mi guarda perplesso come cadendo dalle nuvole. Non sapeva che Mazza era così. Ecco, io non volevo fare la fine di Ferrero, che dopo due mesi se ne andò sbattendo la porta”.
Ma allenatori come Petagna, Fabbri e altri vi si adattavano facilmente?
“Sì perché loro lo sapevano in partenza. E poi Mazza li interpellava prima delle partite. Li chiamava nel suo studio, spesso anche assieme a me, e qui preparavamo la partita. Stabilivamo a chi assegnare questo o quel numero: perché allora, se si ricorda, i numeri erano importanti. Era in base al numero che si capiva che ruolo ricoprire. Sembra strano, ma il numero meno ambito era il sette; così più di una volta ho proposto al presidente di darlo a me. Ecco, così funzionava con Mazza e la situazione si è protratta sino a Caciagli, il primo allenatore veramente autonomo”.
Secondo lei, da cosa è dipeso il declino di Mazza?
“È dipeso dal fatto che il lavoro che faceva lui cominciarono a farlo anche le grosse squadre. Era solito dire che prendeva le piantine piccole per farle crescere e metterle sul mercato. Ad un certo punto i grandi club capirono che le piantine potevano crescerle in casa, nei centri che costruivano, piuttosto che foraggiare Mazza. Così il presidente non poté più andare a pescare in serie C, come aveva fatto con Picchi, Balleri, Micheli e altri, ma doveva accontentarsi di qualità inferiore che non riusciva più a portare in prima squadra, cioè nella vetrina da mostrare ai grandi club”.
Quanto a lei, come accadde il suo arrivo alla Spal?
“Mazza aveva tra i suoi osservatori anche Egidio Pandolfini, che aveva giocato nella Spal prima di me ed era stato mio compagno all’Inter. Io giocavo nella Triestina e lui mi segnalò al presidente come un buon affare. E lui mi prese”.
Le è dispiaciuto cambiare ruolo, da centravanti puro a centrocampista?
“Per niente. Agli inizi della carriera, in Argentina, giocavo mezzala. Quando arrivai al Rosario mi diedero il numero dieci, che di solito si dava a una seconda punta che gioca a ridosso del centravanti. Quindi io e il centravanti eravamo i due uomini col compito di fare gol. Solo che, dopo un primo periodo in cui feci la riserva, quando entrai in prima squadra, mi ritrovai centravanti, quasi a mia insaputa. L’allenatore stabilì che le mie caratteristiche si adattavano al ruolo di centravanti: non puro però, ma alla Hidegkuti, un po’ come si fa oggi. Partivo dal centrocampo e quando arrivavo in area ‘ero buono’, perché saltavo molto bene di testa. Ogni tanto mi prendevo una zuccata, ma spesso facevo anche segnare l’ala destra. Mamma quanti gol ho fatto fare all’ala destra!”.
Fece moltissimi gol in Argentina, prima di venire in Italia.
“Dai diciotto ai venti anni feci quarantasei gol nella massima serie, con il Rosario Central”.
Lottavate per la salvezza o per i primi posti?
“Allora per la salvezza, adesso invece il Rosario lotta per i primi posti. Ha uno stadio da ottantamila posti e un settore della tribuna è intitolato a me, perché i soldi incassati vendendomi li hanno messi tra quelli per costruire lo stadio. Questo mi fa molto piacere. Un paio d’anni fa, quando sono andato al ‘Gigante de Arroyito’, sono stato accolto da un’ovazione che mi ha emozionato. Poi, fra il primo e secondo tempo, mi hanno premiato con la maglia giallo-azzurra numero nove della squadra e per me è stata una giornata indimenticabile. L’accoglienza è come quella di Ferrara: quando vado a Ferrara è sempre una festa”.
Lei è nato vicino a Rosario?
“No. Sono nato a Pergamino, in provincia di Buenos Aires. Quando avevo tre anni mio padre, che lavorava in ferrovia come macchinista, fu trasferito a Rio Cuarto, in provincia di Cordoba, così io vissi la mia infanzia e giovinezza in quella città”.
A emigrare furono i suoi nonni?
“Sì. Erano emigrati coi loro nove figli, sei femmine e tre maschi, alla fine dell’Ottocento da Macerata, ma mia madre era piemontese”.
Si parlava un po’ di italiano in famiglia?
“No, perché mio papà non sapeva una parola e mia mamma, piemontese nata vicino a Tortona, parlava il dialetto piemontese. Nella sua famiglia l’italiano lo capivano, ma tra di loro parlavano sempre in dialetto. Quanto a me, non avevo mai parlato in casa italiano prima di venire in Italia e, quando parlavano i familiari di mia madre, non capivo niente”.
Allora da questo punto di vista deve essere stato duro l’impatto con l’Italia.
“Ah, i primi tempi non capivo niente. Mi ricordo che Peppino Meazza, il mio allenatore, quando mi vedeva in difficoltà, mi diceva, apostrofandomi con un termine argentino non facilmente traducibile: ‘CHE, tranquillo!’. Però non è stato facile. Ricordo che partii di là a dicembre del 1955, dopo aver vinto la classifica dei cannonieri con ventun gol che contribuirono alla salvezza del Rosario per un punto”.
Come avvenne che fu ingaggiato dall’Inter?
“Alla fine del campionato mi interpellò Atilio Demaria, ex giocatore dell’Inter e suo osservatore in Argentina. Mi aveva tenuto d’occhio durante il campionato e mi segnalò ad Angelo Moratti. Mi ricordo che mi meravigliai del fatto che l’Inter non avesse un posto fisso dove allenarsi. In Argentina ogni squadra aveva lo stadio di proprietà e lo usava anche per gli allenamenti settimanali. Invece all’Inter si girovagava di qua e di là senza un posto fisso. Questo fino al 1962, quando ad Appiano Gentile fu costruita ‘La Pinetina’, oggi intitolata appunto al presidente Moratti”.
E noi alla Spal avevamo il fiore all’occhiello di via Copparo.
“Dal 1989 al 1994 vi ho lavorato come allenatore delle giovanili e, tra le altre cose, mi ricordo che ci siamo fatti di quelle grigliate…”.
Me ne ha parlato spesso Angelo Benini, col quale sono amico sin dall’infanzia. Se lo ricorda?
“Certo. Un gran bravo ragazzo, col quale era facile andare d’accordo. Tra tutti noi al Centro c’era un rapporto di vera amicizia, oltre che di collaborazione professionale. Ed è molto importante quando c’è amicizia nell’ambiente di lavoro. Tu puoi essere un campione fin che vuoi, ma è la capacità di essere amico di tutti che ti rende un vero uomo. E questa dote la maturi prima di tutto all’interno della tua famiglia e poi nell’ambiente di lavoro. Famiglia e lavoro, secondo me, sono i due valori fondamentali nella vita di una persona. Tant’è vero che io ci tenevo a coinvolgere la mia famiglia in certi eventi societari. Se, ad esempio, Mazza offriva una cena aperta anche a settori della tifoseria, io gli dicevo sempre che avrei partecipato solo assieme alla mia famiglia. Credo sia giusto così. Il coinvolgimento delle famiglie, delle mogli, fidanzate, contribuisce a unire il gruppo; perché, come si dice spesso, quello che conta è lo spogliatoio. Noi della Spal ci siamo sempre frequentati tra noi: ci invitavamo a cena, i nostri figli facevano amicizia, così come le mogli. E ancora adesso, anche se viviamo lontani, ci telefoniamo per salutarci. Anche questa volta, appena arrivato in Italia, ho fatto un giro di telefonate ai miei amici e li ho sentiti volentieri”.
So che con Bagnoli c’è una grande amicizia.
“Ah, Osvaldo!” e s’illumina in volto a pronunciare il nome dell’amico. “Con le nostre famiglie eravamo spesso assieme. Gli ho promesso di venirlo a trovare a Verona e penso che presto ci verrò. Ricordo che era cresciuto nel Milan ma la Spal l’ha preso dal Catanzaro, nel 1964, l’anno della retrocessione. Quell’anno arrivò anche Muzzio dalla Pro Patria. Mazza diceva che in B si aveva un ritmo di gioco diverso da quello a cui eravamo abituati, così prese due giocatori di B. E io penso che questo valga anche per la Spal di oggi: si deve capire che il campionato di B è difficile”.
L’ha vista per caso la Spal contro il Cagliari?
“Certo che l’ho vista”.
La reazione della tifoseria, naturalmente, è scomposta, con alcuni a dire che non siamo da B e altri che si arrabbiano con chi osa sostenere questa posizione. Secondo lei quanto vale quella sconfitta?
“Nulla. Assolutamente nulla. Non fa testo. L’unica cosa che si deve considerare è questa: che il Cagliari è una squadra di serie A e ha tre quattro giocatori di qualità superiore anche per questa categoria. Sono questi che fanno la differenza. Un po’ come quell’anno che giocammo in B, dove io, che ero un giocatore di A, facevo la differenza. Anche se Mazza aveva dei dubbi riguardo al ritmo che io tenevo, che poteva non essere adatto alla B. Invece ciò che fece la differenza, quell’anno, fu la mentalità di A che io avevo: cioè quella di saper sfruttare gli errori della difesa. Ed è quello che è successo a Cagliari: giocatori di A che sanno sfruttare errori difensivi. Perché con più scendi di categoria, più subentra il disordine e i giocatori di A questo disordine lo sanno sfruttare bene. Quindi nessun timore per il campionato: la Spal sulla carta non è inferiore a nessuno e può giocarsela con tutti”.