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Prosegue la lunga chiacchierata di Arnaldo Ninfali con Oscar Massei. Oggi vi proponiamo la terza parte del loro incontro, la prima parte e la seconda sono disponibili online.

E’ l’ora dell’aperitivo: patatine e salatini innaffiati da un fresco analcolico che sorseggiamo senza fretta. Poi un antipasto di tartine che ben presto induce a levare i calici di prosecco frizzante per augurare salute a noi e tanta fortuna alla SPAL
In nostra compagnia ora c’è anche la figlia di Oscar Massei, Alessandra, la quale, rincasata dal lavoro, fa gli onori di casa con molta gentilezza. Dopo il pranzo non potrà trattenersi a lungo, ma avremo comunque tempo di parlare di Ferrara e dei lontani tempi eroici, scavando a piene mani nei ricordi. Ci coglierà un po’ di nostalgia per quel piccolo mondo ormai perduto di cui noi due più anziani abbiamo fatto esperienza. Forse allora – concordiamo – si era meno individualisti e più disposti al dialogo e alla solidarietà. Si viveva in modo meno dispendioso, paghi delle cose semplici che la quotidianità offriva. Oggi invece siamo schiavi del consumismo e della televisione, che hanno portato prima alla crisi della famiglia e poi a quella della società civile.
Questi argomenti, e altri simili, accompagnano la squisita ospitalità di cui il Capitano e la figlia mi onorano. Oscar si rivela conversatore arguto e ironico e, nell’esprimere un’opinione, lo fa con l’umiltà di chi considera la conoscenza sempre in divenire, mai un dogma inoppugnabile. Nel suo eloquio i “secondo me” e “io la penso così” si sprecano, come a voler sottolineare il diritto dell’interlocutore di pensarla diversamente.

“Per me nel calcio puoi essere un campione fin che vuoi – afferma – ma, prima di tutto, sei una persona come le altre. Prima sei uomo e poi, eventualmente, campione, e questo è vero nello sport come in altri contesti. Dalla scienza, all’arte, alla cultura in genere, eccetera. E come uomo devi rispettare le regole della convivenza civile. Puoi essere ingegnere, avvocato, presidente della Repubblica, ma sei tenuto a portare rispetto agli altri. Si può essere più preparati di altri in certi campi, ma non per questo, quando ci si siede a tavola in compagnia, si deve pretendere di parlare di più e avere sempre l’ultima parola”.

Oggi però è più facile trovare un po’ di superbia nei calciatori.
“Secondo me non tanto. Ce ne sono tre o quattro che eccedono, o hanno ecceduto. Se togli Maradona, Cassano e Balotelli, gli altri mantengono una certa moderazione nei comportamenti. Avranno un po’ più di tatuaggi rispetto a noi ma, nel complesso, sono bravi ragazzi”.

Le dispiace se torniamo a parlare di lei e delle opportunità che ebbe di lasciare la Spal. E’ vero che fu richiesto anche dalla Fiorentina?
“Certo, ufficialmente anche. Un giorno Mazza mi ferma sul campo, me lo comunica e mi chiede cosa voglio fare. Io gli rispondo: ‘Presidente, se mi accontenta riguardo alla cifra d’ingaggio che le chiedo, rimango’. Noi abitavamo in una via che affianca lo stadio (via Ortigara, ndr) e dal nostro balcone, non essendo ancora stata alzata la curva, si vedeva il campo. Così mia moglie osservava la scena sperando che accettassi il trasferimento. Quando vide che io e il presidente ci stringevamo la mano, si mise le mani nei capelli e dopo mi rimproverò: ‘Disgraziato, potevamo andare a Firenze!'”.

Anche Mazza però non è che avesse tanto piacere di lasciarla andare…
“Sì, però quella volta, tentò di recedere dagli accordi, perché al momento della firma del contratto cominciò a tirare un po’ troppo sulla cifra pattuita. Io però non mollai e arrivai persino a rifiutare di giocare: mi è capitato un paio di volte di incrociare le braccia a causa del rinnovo del contratto. Però alla fine si è sempre appianato tutto”.

Lei oggi quali ricordi ha di Mazza?
“Secondo me, tra i presidenti di allora, era quello che si intendeva di più di calcio. E’ riuscito a guidare la Spal per trent’anni e a mantenerla ai massimi livelli facendo tutto da solo”.

Ha qualche aneddoto su di lui che, magari, la coinvolge?
“Ricordo che aveva un amico, un certo Aretusi, che operava nel ramo delle calzature, col quale si trovava spesso in un bar del centro. Era uno che stravedeva per me, tifosissimo della Spal. Mi chiamava ‘Al professor’ e all’inizio di ogni campionato chiedeva a Mazza: ‘Gh’el ist’an al professor?’. E Mazza gli rispondeva: ‘Al gh’é, al gh’é’. allora era contento e replicava: ‘Alora a sen a post’. Per lui, bastava che ci fossi io e il resto andava bene”.

Penso che Mazza le fosse affezionato…
“Certo. E io a lui, perché gli devo molto. E’ stato lui che mi ha fatto ritrovare la fiducia in me stesso, dopo l’infortunio. Mi ha fatto riprovare la gioia di giocare al calcio. Sono stati nove anni stupendi quelli passati alla Spal e io non posso che essergliene grato. Mi ricordo che un giorno, quando era già stato estromesso dalla dirigenza spallina, lo vidi tutto solo seduto ad un bar del centro. Provai pena per lui, tanto che non ebbi neanche il coraggio di andarlo a salutare. Mi sembrò di mortificarlo se traspariva in me questo sentimento”.

Comunque, se lei deve molto a Mazza, penso che anche Mazza debba molto a lei.
“Penso di sì. Ho avuto molte offerte, anche da società importanti, ma ho sempre voluto rimanere alla Spal. Mi bastava mettermi d’accordo sull’ingaggio, che era sempre molto inferiore a quello che avrei percepito da altre parti, e io rimanevo. E anche quando sembrava che lui un pensierino a cedermi lo stesse facendo, io ho sempre rifiutato. Ricordo che, quando arrivai alla Spal, avevo un contratto con la Triestina di sei milioni, che era un terzo di quello che prendevo all’Inter. Ebbene, alla Spal mi accontentai di tre. Dato che ero in comproprietà con l’Inter, avrei potuto chiedere a Moratti di integrare con altri tre milioni, ma non lo feci, perché venivo da una retrocessione e volevo riscattarmi dal punto di vista professionale. Infatti quell’anno disputai il miglior campionato della mia carriera e gli anni successivi ripresi quota anche relativamente all’ingaggio. Ma da altre parti avrei guadagnato molto di più, e mia moglie spesso me lo faceva presente. Allora discutevamo tra noi, ma alla fine capiva le mie ragioni ed era contenta anche lei”.

Ma cos’era che la teneva così legato alla Spal?
“Penso che fosse la gente, l’ambiente e la tranquillità che vi si respirava. Io mi sono trovato talmente bene a Ferrara, che non ho mai voluto lasciarla. Ero venuto in Italia per giocare al calcio e a Ferrara trovai proprio quella tranquillità che serviva per giocare al calcio. Alla Spal ero l’uomo inamovibile e sapevo che, se stavo bene, avrei sempre giocato. Non credo che sarebbe stato così se fossi andato in una squadra grande.

La stessa cosa mi ha detto Sergio Pellissier: “Se io fossi corso dietro a grossi guadagni, non so se, adesso, a trentasette anni, avrei ancora un posto di lavoro”.
“Ha ragione Pellissier. Basta vedere cosa è successo a me: è bastato che mi facessi male e subito mi hanno sostituito con Angelillo, considerandomi finito. Pensare che io, per venire in Italia, avevo persino rinunciato alla nazionale argentina. Avrei dovuto partecipare al torneo panamericano e già mi allenavo con la squadra. Ma a dicembre del 1955 partii per l’Italia con in tasca già il contratto con l’Inter, così in Argentina mi cancellarono dai quadri della nazionale. Io però sapevo che in Italia sarebbero bastate tre partite con la Under 21 e sarei stato naturalizzato italiano”.

Solo che all’inizio del 1957 arrivò quel maledetto infortunio che la estromise, almeno momentaneamente, anche dalla nazionale italiana. Avrebbe potuto rientrarvi, ma Mazza, nel 1962, non la convocò per i mondiali del Cile solo perché era della Spal. E’ vero?
“E’ vero. Non voleva dare a vedere di favorire la propria squadra. Forse si sentiva un po’ in conflitto di interessi. Dopo però si è pentito – e me lo disse lui stesso – perché in quel periodo stavo giocando molto bene”.

Nella Spal, con quali giocatori aveva più intesa in campo?
“Mah, io direi con tutti. In campo dirigevo il gioco io e cercavo che l’intesa funzionasse con tutti. Ogni anno veniva più o meno bene. Il primo è stato il migliore perché, casualmente, Mazza fece una grande squadra”.

Mi disse Bozzao che per un difensore della Spal il gioco era semplice: bastava rubare la palla all’avversario e dare la palla a Massei. Al resto pensava lui.
“E’ vero. Per me l’importante era ricevere la palla e far ripartire il gioco, perché noi giocavamo in contropiede e cercavamo di sfruttare la rapidità nei rovesciamenti di fronte. Facevamo un po’ come l’Inter, dove c’era Suarez a dirigere un gioco basato tutto sul contropiede. I campionati e le coppe che ha vinto li deve tutti a questo tipo di gioco. Io nella Spal ero il Suarez della situazione, che faceva correre la palla più che correre lui stesso”.

E con Capello come si trovava?
“Bene. Era un ottimo ragazzo e in campo trattava la palla come pochi”.

Lo ha più incontrato?
“No. E uno che non ho più visto è stato Angelillo. E’ dal 1957 che non lo vedo. Grandissimo giocatore! Aveva giocato nella nazionale argentina e, assieme a Maschio e Sivori, aveva formato il famoso ‘trio degli angeli dalla faccia sporca’ vincitore del ‘Sudamericano’ del 1957. Peccato che Helenio Herrera non sopportasse la sua vita da playboy e, quando si mise con la ballerina Ilya Lopez, lo mise fuori squadra, obbligando Moratti a cederlo alla Roma. Però non fu più quello di prima, capace di segnare trentatré gol in una stagione”.

Eravate molto amici?
“Certo. Lui era venuto in Italia nel 1957, assieme ai suoi genitori, poco tempo dopo il mio matrimonio, e io andavo spesso a trovarlo con mia moglie a Lambrate, dove abitava. A volte ci trovavamo anche assieme ai milanisti Grillo e Cucchiaroni e così eravamo una bella compagnia di argentini, due dell’Inter e due del Milan”.

Angelillo un giorno fece piangere parecchio la Spal, perché le rifilò cinque gol…
“Eh sì. 8-0 finì quel giorno a San Siro. Credo sia il peggior risultato subito dalla Spal in tutta la sua storia”.

Comunque lei non c’era ancora, sarebbe arrivato qualche anno dopo e dei disastri come questo non sarebbero più accaduti.
“Beh, qualche batosta l’abbiamo presa, ma non così vistosa”.

Però, se andiamo a vedere i dati storici, le sconfitte avvenivano prevalentemente quando lei non c’era.
“Mah, non so questo. So che ogni tanto mi infortunavo e dovevo stare fuori e che non sono mai stato squalificato”.

Sì però una volta ci andò vicino. Mi ha raccontato Bozzao…
“(Qui il capitano scoppia in una divertita risata) Ah, quella volta a Bologna. Feci un fallo un po’ rude e il pubblico cominciò a inveire contro di me chiamandomi per nome: ‘Massei! Massei! Massei!’; e l’arbitro capiva ‘il sei! Il sei! Il sei!’, così espulse il Bozza, che quel giorno aveva il sei. Dopo il Bozza sfoderò tutto il suo carattere polemico e mi disse qualche parolina, ma poi gli passò in fretta”.

Bozzao dice che quella fu l’unica espulsione che subì in tutta la carriera…
“E senza nessuna colpa, anche. Ma così è il calcio: capitano anche queste cose. Bisogna anche dire, però, che chi subì il fallo fece anche molta scena e il Bozza vi si trovò invischiato perché gli si era avvicinato per dirgli di smetterla…”.

Anche allora, quindi, si poteva assistere alle sceneggiate di oggi…
“Sì, ma non come oggi, che esagerano. Ma è un po’ la mentalità di noi latini, solo ‘nosotros’ siamo così, perché tedeschi e inglesi si comportano diversamente”.

Diceva poco fa che Mazza ammise di aver sbagliato a non portarla in Cile. Secondo lei ci furono anche degli errori del presidente alla base del declino della Spal?
“Mah. Diciamo che la partenza di Novelli, Bozzao e mia, cioè degli elementi che formavano l’ossatura della squadra, indebolì la squadra stessa. Infatti non riuscì a sostituirci in modo adeguato, nonostante avesse comprato Orlando, Bean e il giovane Bigon, che tuttavia non resero come lui sperava. Però, secondo me, sbagliò proprio nella scelta che mi riguardava. Nel 1966 avevo fatto il corso allenatori a Coverciano e quindi potevo anche smettere col calcio giocato e cominciare una nuova carriera. Però avevo ancora voglia di giocare e avrei anche potuto continuare. Tanto più che il professor Bocca, che mi curava la labirintite, aveva detto che ero completamente guarito. Ma Mazza non si fidò e non mi rinnovò il contratto. Ecco, forse questo fu un errore da imputare al presidente”.

E sul madornale errore di Paolo Mazza la signora Alessandra serve in tavola piatti a base di pesce che creano un’atmosfera decisamente conviviale. Gran parte della nostra attenzione è d’un tratto rapita da pietanze molto invitanti e un tintinnio di posate comincia ad accompagnare la nostra amabile conversazione. Decidiamo così che all’intervista torneremo più tardi, magari dopo aver sorseggiato un buon caffè.

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