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Dove eravamo rimasti?
Ah sì, che si doveva partire.
Ma oggi è già domenica.

Sono nel parcheggio dell’Alexander, un’ora prima della partenza. Parlo con amici, abbraccio e stringo mani. Io quel parcheggio lo ricordo ancora quando era un prato. Dall’altra parte della strada la mia infanzia e la mia adolescenza. Ma oggi (ieri) è adesso. Un panino al volo e la (prima) birretta. Giove pluvio deve essere romagnolo, perché si incazza coma una iena. Il pullman 4 è introvabile, nuotiamo per il parcheggio fino a quando troviamo l’ormeggio giusto. Ultima fila. Come se l’ultima volta fosse stata la due settimane prima. Ma non è così. Bottiglie di plastica contenenti un liquido giallo e luppoloso (Accademia della Crusca?), ci galleggiano davanti. La taratura dell’aria condizionata è un po’ in stile “Al condomini” di Alfio Finetti, nelle prima file crescono rigogliose le piante di datteri ed i palmeti, mentre giù in fondo dove siamo noi, pernici artiche, foche ed ermellini bianchi ci azzannano i piedi. Un freddo, tipo “centomila gavette di ghiaccio”.

Il viaggio pare breve, ci teniamo in contatto con gli altri, che ci precedono in macchina. Uscita, Cesena. Parcheggio del Manuzzi. Acqua, dal cielo. Lampeggianti e Raul Casadei, riveduto e corretto. Passiamo attraverso duecento tra porte, tornelli, portoni, botole, che nemmeno all’inferno ritroveremo più. I ragazzi sono già dentro che cantano come gli ossessi. Prendiamo le scale, passiamo a fianco al bar e ci lacrimano gli occhi per la commozione. Prima di entrare scorgiamo la curva Mare, con un lenzuolo che ci saluta. Però, sono in tanti. Poi, entriamo in curva ospiti a cinque minuti dall’inizio e rimaniamo a bocca aperta. No, non per loro, per noi. Ci accentriamo, sotto il tabellone, ci riuniamo con i cani sciolti. La zona sembra un “aibi” (mangiatoia per maiali o Pigs); emergono i due aste. Bello, fantastico. In campo ci siamo solo noi. Sugli spalti pure. Traversa, palo, suonano tutte le campane della Romagna, i frati esorcisti ci accerchiano, ogni singola divinità viene presa a male parole. Non ho più voce, da metà del primo tempo, ma canto lo stesso mezzo afono. Scrocco (come sempre) una caramella alla menta ad un amico dietro di me. Cantiamo, cantiamo e cantiamo, ed i ragazzi pressano e corrono, si involano, si esaltano e ci esaltano. Ci vorrebbe uno sfigmomanometro, non per misurare la sfiga, ma per tenerci controllata la pressione. Abbiamo tutti una certa.

Secondo tempo, ci siamo ancora, ed ancora noi. Una, una sola schifosissima azione, una fetido calcio d’angolo ed un “lungagnone” con la maglia bianco nera, spizza la palla e… non ci credo. Traballiamo, ma non smettiamo di cantare.
Siamo sempre qua che cantiam per te. Non è vero, non può esserlo. Ho visto gente della mia età (Nomadi), quasi piangere, alcuni anche senza il quasi. La partita è finita, non ho neanche visto quanto danno di recupero. Angolo per noi, parapiglia. No, ci cacciano fuori Mora, il filosofo. Piccole parole, qua e là, sopra le righe nei confronti della terna, del Cesena, della sfiga e tanto altro ancora. Chissà se ce lo fa tirare. Beghetto. FOLLIA. Pareggio, non ho capito un cazzo, ma abbiamo pareggiato. Urlo, urlo e urlo. Ci abbracciamo, ci picchiamo, ci strattoniamo, ci maltrattiamo, ci amiamo. Mi sembra di essere ad un concerto dei Sex Pistols, sento le note di “God Save the Queen”, salgo gradini, abbraccio gente, la bocca non mi si chiude più, scendo gradini abbraccio la storia della Ovest, stringo mani, pogo, le prendo, le do. Fortuna che non abbiamo lo sfigmomanometro di prima. Mi riprendo che i ragazzi stanno andando verso gli spogliatoi. Non me li ricordo sotto la curva.

Cinque minuti di buio, solo urla, grida, pazza ed indescrivibile gioia. Se avessimo vinto 2-0 come avremmo meritato, non sarebbe stato uguale. Non me lo ricordo un gol in trasferta al 94°, eppure qualche trasferta l’ho pure fatta. In quei momenti ho pensato alla “Ceneri di Gramsci”, tutti uguali, l’avvocato che abbraccia il metalmeccanico, il geometra che abbraccia il magazziniere, il turnista che abbraccia il giornaliero, l’infermiere che abbraccia il malato, il tornitore che abbraccia il “conta pezzi”, il delegato Fiom che abbraccia il mangiaore. Tutti uguali, la Comune di Parigi, per due ore, in una curva, un campo di calcio, il diluvio universale e la passione. Cantiamo ancora, la voce sembra ritornarmi, il pareggio è stato come una settimana a Sirmione. Terapeutico. Scendiamo e ci fermiamo nei pressi del bar, prendo una birretta, la… prima (faccina che ride). Cantiamo la nostra versione di Romagna mia per la millesima volta. Foto, video, canti, balli. Giove pluvio, si incazza di nuovo. Tuoni, fulmini, ma non è che sono i nostri dal secondo piano della Ovest, che accendono le torce ? Mah. Nuotiamo, fino al parcheggio. Pullman nunero 4. Cantiamo ancora. Molti non capiranno, molti penseranno che questo è solo calcio, è solo una partita. Ma non è così, non centra niente, il calcio. Questa amici miei è la S.P.A.L. E sinceramente, a voi, non ho bisogno di spiegare, che cos’è.