E’ proprio vero che – per citare Lucio Dalla – l’impresa eccezionale è essere normale. Soprattutto nel calcio professionistico, un mondo spesso fatto di ostentazione, eccessi, sovraesposizione al limite della cafonata. In cui per distinguersi bisogna essere normali. Che non vuol dire banali e noiosi, ma sobri e misurati. Arrivare al campo con una station-wagon come tante altre e non avere neanche un profilo su Instagram in cui descrivere ogni singola cazzata della propria esistenza. Preferire la pace di casa propria alla mondanità della bolla in cui si entra quando si guadagna un po’ di fama. Come fa Michele Castagnetti, che lascia la SPAL dopo due anni memorabili e non ha nemmeno lasciato un post strappalacrime come quelli di alcuni suoi colleghi più illustri.
Anche tu però, potevi attrezzarti e sfruttare l’occasione…
“(Ride) Sono cose di cui non ho bisogno, quando c’è qualche novità tendo a farla sapere solo a chi mi vuole bene e mi sta attorno, non mi interessa farla sapere a un pubblico. Quello dei social è un mondo un po’ malato che paradossalmente distorce più la realtà che altro”.
I giocatori però spesso vivono in questa bolla gonfiata dalla loro popolarità. Quanto è difficile restarne fuori?
“Un calciatore, in quanto figura pubblica, dovrebbe provare a star fuori da queste logiche, perché è già una persona nota e chiacchierata. Quello che i giocatori cercano di fare spesso è di cavalcare quest’onda di popolarità, invece secondo me dovrebbero andare nella direzione opposta. Almeno è quello che viene spontaneo a me: non mi interessa far sapere alla gente dove sono, cosa faccio o come mi sento. L’importante è che a saperlo siano le persone a cui importa davvero”.
Ma quando si arriva in serie B o in serie A si può essere ancora solo persone e non personaggi?
“Io ho sempre fatto la Lega Pro e nell’ultimo anno mi sono accorto che c’è stato un salto bello grosso, perché l’attenzione mediatica aumenta esponenzialmente. Questo implica maggiore visibilità e un giocatore si trova potenzialmente più importante e famoso. Però sta alla persona decidere se gli fa piacere o meno sfruttare questo tipo di fama”.
Quindi si può ancora avere riservatezza, anche così in alto?
“Sì, certo. Se uno sta tranquillo, si fa gli affari suoi e coltiva i suoi interessi fuori dal calcio ci può riuscire benissimo. E’ una vita normale come tutte le altre. Chiaro che se uno pubblica in continuazione cose su se stesso, attira volontariamente l’attenzione e ne paga le conseguenze”.
Tu che interessi coltivi fuori dal calcio?
“Quando posso cerco sempre di tornare a casa, dalla mia ragazza e dai miei amici e fare cose con loro. Ho questo senso della terra che mi riporta sempre a Montecchio. Ferrara invece è una città in cui mi piaceva girare per conto mio, a piedi o in bicicletta, per le vie del centro. Mi piaceva andare al cinema Apollo, al Castello, a palazzo Schifanoia soprattutto nel parco”.
Un posto che i ferraresi frequentano pochissimo e lasciano soprattutto ai turisti. Scommetto che nessuno ti ha mai riconosciuto mentre eri lì.
“No infatti, mai nessuno! C’era sempre poca gente perché andavo al mattino. In primavera e in autunno è veramente un posto magnifico”.
Alla luce di tutto questo, quanto ti costa andare via da Ferrara?
“Mi dispiace perché è una città in cui sono stato veramente bene. Ci ho passato due anni fantastici coincisi con due campionati vinti. Però fa parte anche di questo mestiere dover cambiare. Non c’erano più le condizioni per andare avanti e quindi sono felice che sia arrivata immediatamente questa opportunità, perché non me l’aspettavo”.
Come è nata l’operazione che ti ha portato a Empoli?
“Il mio procuratore (Giovanni Bia, ndr) un paio di settimane fa mi ha comunicato che c’era l’interesse dell’Empoli nei miei confronti. Però la trattativa tra le due squadre non è stata facile, per cui i tempi si sono un pochino allungati. Ho parlato col mister e con Vagnati e ci siamo trovati d’accordo sul trasferimento”.
Questione di spazio, immagino. Qui avresti giocato ben poco.
“Sì, il punto è quello. Qui avrei trovato poco spazio e sarei arrivato a giugno a scadenza. Dopo due campionati vinti fare un’annata in cui giochi poco o nulla ed essere senza contratto non è il massimo. Per cui ho preso questa decisione”.
Ti ritrovi di nuovo in serie B, ma in una realtà abituata al piano superiore.
“Indubbiamente. Empoli è una delle piazze di serie B tra le più ambite. E quando una società del genere ti vuole a tutti i costi è giusto andare. Sono arrivato da un giorno, però vedo già la qualità delle strutture e dell’organizzazione. In più c’è mister Vivarini, un allenatore che ho sempre stimato. Ricordo bene il suo Teramo che stravinse il campionato tre anni fa, giocava con un 352 fatto benissimo. Poi ho sentito De Vitis che ha lavorato con lui a Latina e me ha parlato ottimamente. Empoli tra l’altro è una cittadina tranquilla a pochi chilometri da Firenze, quindi a livello ambientale si sta benissimo”.
Un anno fa salutavamo un altro bravo ragazzo come Di Quinzio e ragionavamo con lui sui motivi della sua mancata conferma. Sostanzialmente gli venne detto che non era da serie B. E’ una situazione comparabile?
“Beh, penso proprio di sì (ride)”
Davide quella volta disse una cosa del tipo: “Non mi si può dire che non sono all’altezza della categoria se non mi si è mai visto giocarci”. E’ il genere di pensiero che hai fatto anche tu?
“Sai, nel calcio c’è chi gioca e chi decide chi deve giocare. Se alla SPAL hanno preso questa decisione vuol dire che a loro giudizio non sono in grado di fare la serie A, almeno quest’anno. Io posso pensare quello che voglio, ma conta poco. Se quattro anni fa m’avessero chiesto se avrei mai fatto la serie A in carriera, difficilmente avrei detto di sì. Per cui non lo so se ci posso stare o no. Di certo provare mi avrebbe fatto piacere. Non è detto che non possa accadere in futuro”.
Già a gennaio però la tua posizione sembrava in discussione: la SPAL trattò Lodi con l’Udinese e anche se non se ne fece nulla sembrava un segnale premonitore.
“Eh effettivamente quel periodo della finestra di mercato invernale non l’ho vissuto proprio con piacere. Non l’ho detto a nessuno, però non ci sono rimasto benissimo perché eravamo terzi o quarti e personalmente avevo fatto un girone d’andata buono per essere uno che non aveva mai fatto la serie B. Dopo Vicenza, che è stata una partita sfortunata e in cui io giocai non proprio benissimo, venne fuori l’idea di prendere un regista nuovo. Però anche quello fa parte del calcio, non che il mio pensiero potesse cambiare granché della situazione. Si è sempre in discussione in questo mestiere. Anche se non mi sembrava fossimo carenti a centrocampo, perché mi è sempre parso che tra me, Arini e Pontisso il reparto fosse completo. Alternandoci poi abbiamo stravinto il campionato. Poi non so nemmeno quanto concreta sia stata quella trattativa”.
A mercato chiuso Vagnati spiegò che Lodi non venne a Ferrara perché lo vide poco convinto. Alla luce di questo si è sempre detto che la vera forza della SPAL era la compattezza del gruppo e la voglia di remare tutti verso lo stesso obiettivo.
“Infatti è così, abbiamo costruito un gruppo straordinario, fin dal secondo anno di Semplici. Lo abbiamo mantenuto anche in serie B, sia tenendo buona parte dell’organico, sia inserendo grandi uomini. Gente che veniva dal niente o voleva dimostrare di poter ancora dire la sua e che qui ha trovato un ambiente ideale, affamato di vittorie”.
E’ possibile costruire gruppi del genere anche in serie A, dove i giocatori tendono a essere già mediamente affermati?
“Questo non te lo so dire. Però il gruppo di amici è più facile da costruire nelle categorie minori, perché si hanno esperienze simili e ci si è incrociati tante volte da avversari, per cui ci si conosce già un pochino. Nelle serie superiori arrivano tanti stranieri con culture ed esperienze diverse, ma più in generale i calciatori sono abituati a gestirsi come dei professionisti nel senso più stretto del termine. Ossia che per loro il calcio è una professione e al di fuori di quello non c’è una necessità di legare con i propri compagni di squadra anche fuori dallo spogliatoio. Essere a Ferrara o a Palermo cambia poco insomma. Anche se questa non è una regola assoluta. Nei giorni scorsi ho avuto modo di conoscere i ragazzi nuovi e mi sono sembrati tutti molto simpatici e alla mano. Di certo c’è che Vagnati punta tantissimo su questo aspetto, sulla coesione e sulla condivisione”.
Nel gruppo della SPAL c’era anche Luca Mora, che per te è un amico fraterno. E’ dura separarsi da lui, vero?
“Sarà dura, perché siamo amici dai tempi di Noceto e non capita quasi mai di poter giocare nella stessa squadra con un amico vero. Però sapevamo che sarebbe potuta andare così. Continueremo a vederci il lunedì e in altre occasioni, a prescindere dalla SPAL. Sono contento per lui perché come me è partito dal basso e non ha un pedigree calcistico che potesse permettergli degli errori lungo il percorso. Tutto quello che ha se l’è guadagnato sul campo”.
Conoscendolo da tempo, ti aspettavi avesse un impatto del genere? Tanti non si aspettavano una simile crescita.
“Neanche io a dire il vero. Anche se ci giocavo insieme a vent’anni e poi l’ho ritrovato a Ferrara più consapevole e soprattutto più forte. Ha fatto due anni sensazionali. Se un anno fa m’avessero chiesto se era lui la miglior mezzala sinistra della serie B, non avrei detto di sì. Invece adesso bisogna dire che lo è”.
Di sicuro lui non ha mai ricevuto critiche – se non dopo Benevento-SPAL – mentre tu hai dovuto fare i conti con uno stillicidio di giudizi anche spiacevoli. Come lo hai vissuto?
“Il dispiacere non sta nei mugugni e nei fischi per qualche passaggio sbagliato, ma nel fatto che se ne sia parlato così tanto. In un contesto in cui le cose andavano benissimo e stavamo facendo un campionato sopra le aspettative, ogni fine settimana leggevo del fatto che ero stato sostituito e qualcuno aveva fischiato. Poi uscivo a fare una passeggiata in centro e trovavo gente che mi diceva: ‘Ma lascia perdere quei cretini che ti fischiano’. Tutti i giocatori hanno delle giornate negative o dei periodi in cui le cose non girano. Ma porre l’accento su qualcuno in particolare secondo me è sbagliato. Questa cosa è stata alimentata anche un po’ dalla stampa, che dopo ogni partita chiedeva al mister cosa pensasse della mia prestazione o del motivo per cui ero stato sostituito. Fortunatamente quando ci sono le vittorie queste cose poi si sciolgono e non ci si pensa più”.
Nientemeno che Johan Cruijff raccontò che lui non riusciva a valutarsi, perché quando giocava male gli capitava di essere osannato e quando andava bene magari veniva sminuito. Per cui giocava e basta, senza pensarci troppo.
“Molto nel calcio è affidato alla percezione soggettiva, non c’è dubbio. Magari si fanno tante giocate poco entusiasmanti, ma che alla fine sono efficaci per portare a casa il risultato. Però se quello che è stato descritto come uno dei migliori allenatori della storia della SPAL mi sceglieva spesso come titolare, qualcosa avrà pur voluto dire”.
Spesso si parla del pubblico ferrarese come di una platea molto esigente. Hai avuto anche tu questa impressione?
“No, no, per niente. Anche se è sempre difficile capire cosa pensa la gente di te. Ci sono giocatori che piacciono di più e altri meno apprezzati. Quello del centrocampista è un ruolo un po’ al limite. Se vinci in genere è merito dell’attacco che ha segnato o della difesa che non ti ha fatto prendere gol, mentre a metà campo c’è tanto lavoro sporco da fare e ci sono tanti modi di interpretarlo. Poi c’è la componente della stampa: se i giornalisti ti elogiano è più facile che il pubblico faccia lo stesso. Stessa cosa se ti criticano”.
Hai citato Semplici prima. Cosa rende così speciale lui e il suo lavoro alla SPAL?
“La scelta degli uomini è determinante. Semplici li cerca con caratteristiche e caratteri in sintonia con la sua idea di gioco e di gruppo. Lui in particolare ha la capacità di far sentire a proprio agio i giocatori e i suoi allenamenti sono sempre divertenti. Se un giocatore sente la fiducia, si diverte in allenamento e col gruppo e vive in una città in cui la qualità della vita è alta non voglio dire che i risultati vengano in automatico, ma si creano condizioni ideali”.
Cosa ti mancherà di più di quello che lasci?
“Tantissime cose. La città, lo stadio e tutte quelle figure che ruotano attorno alla SPAL, dal magazziniere ai massaggiatori. Persone che mi dispiacerà non vedere più, anche se spero di incontrarne di altrettanto valide nella mia prossima esperienza”.
Se dovessi fare un nome in particolare?
“Mi viene da dire Marco, il magazziniere. E’ toccato a lui accompagnarmi da Tarvisio a Ferrara per quest’ultimo viaggio e abbiamo avuto l’occasione di parlare a lungo. E’ una gran persona e un lavoratore incredibile. Mi allontano da una seconda famiglia, ma non la lascio. So che sarà sempre qui e la rivedrò ogni volta con piacere. Ora però devo voltare pagina e guardare al futuro”.
Nella peggiore delle ipotesi ci rivedremo seduti a un tavolino nel giardino di Palazzo Schifanoia.
“(Ride) Eh, certo, volentieri! Sarà sempre un piacere, davvero”.