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I ragazzi entrano in campo, lo speaker li annuncia e mette l’unico pezzo che avrebbe dovuto mettere. La mia adolescenza, la colonna sonora di tutta la mia vita, dal primo LP registrato su una BASF 90, nel silenzio di una stanza vuota, stereo e registratore, Play e Rec, senza cavetti e senza connessione, l’unico digitale erano le nostre dita che spingevano i tasti. Il pezzo all’ingresso dei ragazzi è stato “Back in Black”, in onore del grade Malcolm Young (dice la mia testa), co-fondatore degli AC/DC.

Corrente alternata, corrente continua, AC/DC, puro e semplice rock and roll. Rock non come musica, ma come antro dell’anima, dove le parole non hanno importanza, dove i decibel non sono rumore ma scariche di adrenalina elettrica. Hard rock senza sconti, fine a se stesso senza interferenze politiche, sociali, culturali, esempio di come la musica semplicemente è una scarica, scossa, emozione, esplosione. Dove la Gibson diavoletto di Angus viene suonata con una lametta da barba al posto del plettro, che taglia oltre alle corde della chitarra, anche i tendini ed i nervi di chi li ascolta. Ultimi, mai schiavi dello show business, la chitarra di Angus, l’urlo stridente ed acido di Brian, l’alito fetido come le fogne di Calcutta di Malcolm, il rullante infinito di Phil, il basso elettrico suonato come una chitarra di Cliff, diventano un tutt’uno con il pubblico di tutte le età, razze ed estrazione sociale. Nei bagni del Red Lion Pub lessi milioni di anni fa una scritta. “Il Dark è una moda il Rock è una fede”; sì certo una fede atea, blasfema la cui unica preghiera la si suona con una chitarra elettrica. Grazie di tutto Malcolm, spacca la chitarra in testa al diavolo e mi raccomando abbraccia Bon da parte mia. Ah, dimenticavo, c’è stata pure la partita.

Noi sinceramente in questa categoria da ricchi, viziati e Tavecchiani, siamo belli come il sole, mi viene in mente (scontato) il neorealismo di “Poveri ma belli”, siamo un’entità che potrebbe essere solo sognata, saremmo lo spot ideale per la rifondazione di un calcio, bolso, che solo realtà come la nostra possono salvare. Cantiamo, M. dalla balaustra ci bacchetta e ci ricorda che non siamo il piccolo coro dell’Antoniano, i ragazzi in campo fanno il loro. Paloschino la mette e sul mio fronte sinistro, franano i ragazzi di via Nievo, come sempre esageriamo, ci strappiamo i giubbotti e ci urliamo in faccia. Forse che siamo esagerati ? Anche, no. A noi piace così.

Poi, bisogna dire due parole sugli elettricisti. Lasciatemelo dire, ma con tutti i soldi che ha speso la società, possibile che non siano capaci di portare due fili elettrici di collegamento ad un monitor, lassù in tribuna? Mi riferisco al VAR (ed aldaVAR), come può essere che non funzioni? Lavoro in una azienda elettro-strumentale, se volete ci metto una buona parola ed una coppia di elettricisti riesco pure a procurarla. Entra Sergione nostro. Boato, la spizza e Paloschino la mette di nuovo. Ora il fonte alla mia sinistra sembra il Vajont, ci spappoliamo ed una signora sembra avere la peggio, fortunatamente nulla di grave. Mi spezzo un unghia contro qualcuno (speriamo che mia estetista non si arrabbi), ma porco cazzo ce lo annullano. Ha inizio la novena, che dura svariati minuti. Loro pressano noi giochiamo. A dieci dalla fine pareggiano pure.

Prendiamo a male parole i CAV (nell’arco della partita), ma in due occasioni li applaudiamo, quando dal curvino vengono alzate due pezze, prima una di sostegno a Luca, ultras della Sambenedettese che lotta per la vita ed una per onorare la memoria di Aldro. Questi sono esempi, che la società civile dovrebbe mutuare dagli ultras, atteggiamenti non scontati, che fanno capire quando le rivalità, lasciano lo spazio al valore per la vita. Non è facile capire, ma sarebbe importante, provare ad ascoltare e vedere i segnali, che un mondo tanto vituperato, (alle volte a ragione altre volte no), lancia a chi generalizza e semplifica. La curva di uno stadio è un microcosmo complesso e spesso ricco di umanità. Non ci avrete mai come volete voi, cantano i ragazzi. Ed è vero.