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Un altro anno di duro lavoro sta per andare in archivio anche sul fronte del settore giovanile. Per fare il punto sulla stagione delle varie selezioni biancazzurre abbiamo deciso di incontrare tutti i rispettivi allenatori per fare con loro il punto attraverso cinque domande chiave (più una).
Dopo aver “interrogato” gli allenatori delle squadre nazionali (a fondo pagina i link delle rispettive interviste), stiamo passando in rassegna i tecnici di tutte le altre rose. Oggi è il turno di Massimiliano De Gregorio, guida dei Giovanissimi 2005.

Mister, dovesse trovare un titolo o anche solo un aggettivo per la stagione appena trascorsa, quale sarebbe?
“Senza dubbio la stagione è stata estremamente stimolate. Abbiamo giocato un campionato interessante, il primo ad undici con società professionistiche e per i ragazzi è stato un passo importante. Questo è un anno di cambiamento completo per un calciatore di tredici anni. Si passa da campionati con una fascia d’età in cui la federazione prevede che tutti giochino lo stesso minutaggio a questo in cui gli istruttori devono fare delle scelte in base alla partita ed al momento che sta attraversando il singolo: come società abbiamo deciso di seguire le regole previste nelle categorie più basse fino a gennaio, dando a tutti lo stesso minutaggio, per poi far rispettare quelle del campionato Giovanissimi dal girone di ritorno, iniziando a farli ragionare come piccoli calciatori”.

Qual è stato l’insegnamento più importante che sente d’aver trasmesso alla squadra?
“Personalmente mi piace pensare di aver trasmesso qualcosa dal punto di vista umano, come il rispetto per i compagni, per la società e per gli avversari. Sono cose che avevano già sviluppato nelle annate precedenti, ma quest’anno era importante instaurare tra loro un rapporto che andasse oltre il semplice compagno di squadra, creando un gruppo, per capire che bisogna giocare non solo per se stessi ma per la squadra. L’attaccamento può far fare il salto di qualità necessario in questo campionato. Quest’anno abbiamo fatto quattro allenamenti alla settimana e per dei ragazzini di tredici anni è un impegno importante, calcolando che devono andare a scuola e coltivare le amicizie. Ma sono stati sempre presenti e nessuno si è mai lamentato. Inoltre in queste fasce d’età è fondamentale la tecnica individuale e noi cerchiamo di accrescerla quotidianamente: ci sono ragazzi più portati ed altri che ancora non sono pronti per affrontare certe competizioni, questo perché la crescita è soggettiva ed occorre dare ad ognuno il tempo di migliorare. E’ importante per il ragazzo capire che si trova in una società professionistica di primissima fascia e quindi le panchine o le mancate convocazioni non rappresentano una bocciatura, ma un’opportunità per lavorare all’interno di un gruppo importante, consci che quando saranno pronti verrà il loro momento”.

In quale aspetto invece i ragazzi potevano fare meglio?
“Faccio fatica a fare critiche a questi ragazzi perché non hanno mai mollato di un centimetro. Chiediamo sempre di avere quel pizzico di cattiveria agonistica in più, che in questo tipo di campionati diventa una componente indispensabile perché non serve più essere solo belli, bravi e puliti ma anche aggressivi e cattivi, sempre calcisticamente parlando ovviamente. Se non mette qualcosa in più dal punto di vista agonistico anche il ragazzino più dotato tecnicamente, rischia di perdersi”.

In base alla sua esperienza calcistica, nota qualche differenza rispetto a quando giocava a calcio alla stessa età dei ragazzi che allena?
“A questi ragazzini non mancano la passione e la voglia di giocare: abbiamo fatto una stagione lunghissima costellata di impegni e non hanno mai dimostrato di voler mollare. Sicuramente la loro vita fuori dal campo è diversa da quella che potevo fare io vent’anni fa. Parliamo di ragazzini il cui unico approccio col pallone è all’interno della società sportiva, perché le scuole non fanno più attività motoria e quindi ci arrivano col bisogno di percorsi diversi dal punto di vista coordinativo ed atletico. Qui si notano le differenze tra i ragazzini di un tempo e quelli di oggi. Sul piano dell’entusiasmo invece non vedo distinzioni perché sono consapevoli di essere in una società di serie A. Io sono qui da quando eravamo in Lega Pro ed ho avuto la fortuna di vivere questo percorso vedendo i ragazzini sempre più trascinati e motivati dalla situazione che vivono. A volte ci tocca stemperare le loro tensioni, perché dobbiamo ricordarci che hanno sempre tredici anni e se non c’è divertimento difficilmente ci sarà poi apprendimento: noi da loro pretendiamo tanto ma dobbiamo garantirgli quei momenti di svago e di gioco indispensabili alla loro età”.

Spesso però già a tredici anni si individuano dei potenziali talenti e si creano grandi aspettative: secondo lei un’eccessiva pressione può danneggiare la loro crescita?
“Io sono spaventato da procuratori che rincorrono i ragazzini creando aspettative esagerate e se poi le famiglie non sono pronte ad affrontarle si riversano su di loro: il divertimento del giocare a calcio coi compagni lascia spazio all’ansia di accontentare il padre che vede in loro il futuro calciatore. I ragazzi vanno lasciati sereni, poi se uno ha talento sono il primo a dire che bisogna valorizzarlo per portarlo il più in alto possibile, ma senza ansie e pressioni. Non devono giocare come fossero predestinati, perché è pieno di ragazzini che a tredici anni sembrano dei futuri campioni e poi si perdono per mille motivi. Quando le famiglie ripongono nel ragazzino aspettative esagerate, vedendo nelle strutture in cui gioca delle persone che possono stoppare la sua carriera e non dei formatori, diventa un problema: ci vogliono massima collaborazione e coordinazione per trasmettere loro la massima tranquillità e serenità. In questa fase la famiglia può essere determinante specialmente se capisce che giocare meno di altri non è una bocciatura ma fa parte del percorso di crescita: è un concetto facile da spiegare ai ragazzi, un po’ meno ai genitori”.

A quest’età si possono già individuare dei ragazzi che hanno capacità e talento per affermarsi tra i professionisti oppure è una valutazione prematura?
“Io non credo che a quest’età si possa capire se un ragazzino abbia le qualità per poter arrivare a certi livelli ed anche parlando dei ragazzini particolarmente talentuosi che abbiamo, non mi sentirei mai di dire con certezza che avranno un futuro da calciatori. Il sogno va coltivato, ma occorre essere onesti con loro facendogli intendere che il percorso primario da seguire è quello scolastico: se poi sono dotati calcisticamente ben venga, ma ora devono vivere il calcio come una bella esperienza. Come dicevo prima, credo vi siano troppe aspettative sui ragazzini di tredici anni nel calcio moderno e spesso gli si chiedono cose superiori rispetto a quelle che sono le loro reali possibilità e necessità in questo momento, in cui hanno il diritto di sognare e non il dovere di sentirsi per forza futuri calciatori”.

Intervista #1 Marcello Cottafava, allenatore della Primavera.
Intervista #2 Fabio Perinelli, allenatore dell’Under 17.
Intervista #3 Matteo Rossi, allenatore dell’Under 16.
Intervista #4 Matteo Barella, allenatore dell’Under 15.
Intervista #5 Andrea Camanzi, allenatore dei Giovanissimi 2004.