In circostanze normali un boia inoperoso dovrebbe essere considerata una buona notizia, ma non se il Boia in questione si chiama Sergio Floccari. Il numero dieci biancazzurro è ancora a secco di minuti in campionato a causa di un problematico processo di recupero da un infortunio risalente addirittura a luglio. Ma chi pensa che il 36enne attaccante di Nicotera si sia rassegnato al ruolo di uomo spogliatoio senza responsabilità di campo sbaglia alla grande. Leggere per credere.
Sergio, sei inchiodato a zero nel minutaggio: una condizione che in genere si riserva ai terzi portieri o ai ragazzini agli esordi.
“L’avvio di stagione è stato sicuramente particolare per me. Già in ritiro ho subito un infortunio al piede un po’ noioso e non mi sento ancora del tutto a posto, me ne rendo conto in allenamento. Non sto a dilungarmi sui dettagli, però è quel genere di problema che richiede tanto tempo. Però nell’ultima settimana mi sono sentito bene e non ho avvertito dolori e fastidi, per cui sono fiducioso. Sto cercando di arrivare alla miglior condizione possibile, anche perché non so quante partite o campionati farò ancora e mi dispiacerebbe non poter dare il mio contributo”.
Ti rode passare per un giocatore che ha sempre problemi fisici?
“In realtà non ho mai avuto infortuni seri e alla mia prima mezza stagione alla SPAL in B stavo veramente bene. Poi è subentrato qualche problemino, ma mai nulla di particolarmente grave. Purtroppo all’inizio dello scorso campionato di A, contro l’Udinese, mi sono fatto male, ma diciamo che è stata una serie di colpi ricevuti a fregarmi. Avevo preso una botta su una coscia e ho voluto continuare lo stesso, senza rendermi conto che alla fine ho peggiorato la situazione. Quindi non mi sento quello che si è fatto male sempre, ho giocato tanti anni e con continuità. Spero di poter recuperare presto, ma questo fa parte del nostro lavoro, al di là dell’età. E quando ritrovo un po’ di regolarità vedo che ancora sto bene e mi diverto, ed è quello che tiene la fiammella ancora accesa, altrimenti non avrebbe senso continuare a giocare. A me piace guardare avanti sperando di dare il mio contributo. Certo è che la condizione fisica per un giocatore del mio ruolo è fondamentale, muovermi su tutto il fronte d’attacco è sempre stata, ed è tuttora, una mia peculiarità. Chiaro che bisogna mettere minuti nelle gambe appena possibile, ma questo vale per tutti”.
Sei sempre stato un attaccante molto generoso: nello stile di gioco di Petagna rivedi qualche elemento del tuo?
“Sì, ci sono diverse somiglianze tra me e lui. Andrea è un giocatore che partecipa molto alla manovra, siamo simili nel modo di gestire gli spazi, ma io nel tempo ho cercato di modificare il mio repertorio perché è giusto che un attaccante sia presente negli ultimi metri, a ridosso della porta avversaria. E i gol messi a segno lo scorso anno (due a Benevento nell’area piccola e uno simile a Udine nel girone di ritorno) sono da uomo d’area. Paloschi, per esempio, è sempre presente nella zona calda ed è giusto così perché un attaccante deve esserci. Poi col tempo si matura, si può anche cambiare, ma il gol deve sempre esserci”.
Sei arrivato in B e hai fatto gol decisivi, nella scorsa stagione ne hai firmati di pesanti… in questa cosa ci dobbiamo aspettare?
“Prima di tutto quest’anno mi aspetto di iniziare a fare qualche minuto (sorride; ndr). Dipende dalla condizione, sperando non si presentino ulteriori problemini fisici. Devo trovare continuità negli allenamenti, arrivare alla partita è già un passo successivo”.
Ma se sabato a Roma Semplici dovesse chiederti di entrare in azione dieci minuti?
“Il piede mi ha dato un po’ di noie, la mia difficoltà è tutta lì. Questa settimana, per dire, mi sto allenando molto bene, ma sento che ho ancora un po’ di fastidio, per questo motivo devo, per forza di cose, navigare a vista”.
Parlavamo di gol: qui ne hai fatta una manciata, alcuni di memorabili. Meglio quello col Carpi o quello col Perugia?
“Quello col Carpi è stato bellissimo perché è arrivato al termine di un’azione corale costruita alla perfezione. Contro il Perugia, invece, è stata una rete importante perché il nostro avversario ci stava facendo soffrire e non poco. Nella prima mezz’ora non ci avevamo capito granché e segnare in quel momento significò molto per noi, perché il Perugia perse fiducia”.
Nella tua carriera sei spesso stato il genere d’attaccante che doveva lottare per il posto e sfruttare le occasioni. In questa rosa ad esempio c’è Paloschi che pare di dover sempre dimostrare di essere decisivo. Quanto è complicato farsi trovare sempre sul pezzo, anche per un piccolo spezzone di partita?
“Fare questo sport ad alti livelli è difficile. Servono tante qualità, non solo la tecnica. E’ la mentalità a fare la differenza e a rendere completo un giocatore e in questo caso penso a Paloschi. Non bisogna mai mollare, è necessario allenarsi al meglio e continuare a lavorare, anche se poi non si scende in campo per settimane. E’ dura perché, inutile nasconderlo, siamo come bambini, vorremmo sempre giocare, e l’emozione di entrare in campo si sente. Alberto, basta guardare gli allenamenti, è uno che ha sempre voglia e si allena sempre al massimo. Sono situazioni che ho provato direttamente sulla mia pelle quando ero alla Lazio: con Klose in squadra non ero certamente il titolare, ma sono riuscito a sfruttare le mie occasioni. E Miro era uno che non mollava veramente mai, neanche in partitella al giovedì. E la cosa che mi ha impressionato di più di lui è stata la mentalità. Si è capito subito che aveva qualcosa in più: sapeva come gestire situazioni complicate e questa è una dote fondamentale. Anche Hernanes è così e infatti ha fatto una grande carriera. Questo discorso vale sì per i top player, ma anche per chi ha meno qualità”.
Una mentalità del genere si acquisisce solo quando si invecchia o si può avere anche da giovani?
“E’ nell’indole, ma incontrare giocatori di un certo tipo può aiutare a migliorare anche in giovane età”.
Invece i giovani di questa SPAL cosa possono imparare da te?
“Non lo so, non bisogna chiederlo a me. Essere o no un esempio viene in modo naturale, non bisogna forzare queste cose. E poi non sono uno a cui piace parlare più del dovuto, credo nella serietà e nel fatto di avere il giusto atteggiamento. In questo bisogna seguire la passione: mi incazzo se perdo le partitelle, ma non sto lì a pensare di dover dire qualcosa di particolare a qualcuno. Preferisco cercare di essere un riferimento col mio comportamento”.
Ci sono giocatori che alla tua età vanno dallo psicologo perché faticano ad affrontare l’idea di dover lasciare un certo tipo di mondo. Tu come vivi il pensiero del tuo futuro?
“Mentre sei ancora in attività puoi provare ad immaginare il tuo futuro una volta smesso di giocare, ma la realtà è che te ne rendi conto solo quando quel momento arriva. Non lo puoi prevedere o disegnare preventivamente. Io per esempio sono via da casa da 25 anni per il calcio e il rischio che si corre è di identificarsi con il proprio lavoro e non riuscire a vedere alternative. In più questo mondo non ti educa ad altro e non è facile sganciarsi da questo ruolo, anche per chi prova a mettersi lì a pensarci bene. Prepararsi allo step successivo è difficile e dipende anche da tante cose, dagli eventi della vita, da valori come la famiglia e la salute. Quando si spengono i fari non resta molto altro, sono quelle le cose basilari. Uno pensa di portare avanti tutto ciò per tanto tempo, poi quando si arriva alla fine la domanda è ‘e ora cosa faccio?’. La riflessione è riuscire ad immaginarsi e a percepirsi non solo come calciatore”.
Potrebbe tornare utile “formare” i calciatori mentre sono ancora in attività?
“Senz’altro potrebbe aiutare, perché di allenatori e direttori sportivi ce ne sono uno per squadra, mica tutti possono intraprendere quel tipo di carriera. Il movimento calcistico dovrebbe riflettere su questa cosa perché la ricollocazione dei giocatori a fine attività non è semplice. Conosco tante storie al riguardo. Ma la volontà di pensare al futuro deve partire da ognuno di noi per sviluppare altre doti del nostro patrimonio di capacità e di idee. I numeri non sono incoraggianti, ma è difficile immaginare uno scenario con anticipo”.
In un paio di occasioni i dirigenti della SPAL hanno fatto intendere che vorrebbero trattenerti alla SPAL anche con un altro ruolo. Ti vedi più uomo da ufficio o d’azione a bordo campo?
“Non sapevo di questa cosa e li ringrazio. Ora non ho necessità di vedermi per forza in campo o dietro ad una scrivania. Da quando sono piccolo faccio questo lavoro e mi sono creato un ampio bagaglio personale, ma faccio fatica a pensarmi in un ruolo preciso. Sicuramente è importante avere persone che credono in me perché non tutti hanno questa possibilità, quindi ringrazio per la fiducia che mi viene data. Vediamo un po’ cosa riserverà il futuro. Sicuramente qua ho trovato un ambiente sano e a misura d’uomo, una gestione un po’ diversa dalle mie precedenti esperienze. Mi piace molto stare qui”.
Ferrara non a caso è un’altra delle tue tappe emiliane: questa regione deve avere qualcosa di speciale.
“Non è un caso che abbia giocato in quasi tutte le squadre di questa zona (ride; ndr). Forse mi mancano solo Cesena e Piacenza. Avendo conosciuto presto questa terra ho avuto modo di apprezzarla sempre di più col passare del tempo. Mi piace il modo che hanno le persone di approcciarsi alla vita, di relazionarsi. In più mia moglie è praticamente romagnola (è sammarinese, ndr) e questa è una terra che mi è entrata subito dentro. C’è stata l’alchimia giusta e mi piace tutto, dalla cucina al clima, e questo ha effettivamente condizionato un po’ la mia carriera. Qua si sta bene sotto tutti i punti di vista”.
Tra le altre cose come sei arrivato a Ferrara hai scelto la maglia numero dieci, che nonostante tutti i cambiamenti del calcio ha ancora un forte valore simbolico. Necessità o scelta ponderata?
“Quando sono arrivato alla SPAL non c’erano troppi numeri liberi, il 9 non mi piaceva e il 99 che ho indossato tante volte in passato, in B non potevo prenderlo. Ho scelto il 10 perché è il numero con cui ho iniziato a giocare nel mio paesino d’origine. Mi piace vederlo un po’ come un cerchio che si chiude”.
Nel corso del tempo non sono cambiati solo i numeri di maglia. Anche la dimensione pubblica dei calciatori è stata stravolta dall’adozione dei social network. Tu al momento ne stai fuori.
“Sì, ne sto fuori, ma non lo dico con orgoglio, perché al giorno d’oggi rischi di sembrare un disadattato e il mondo sta andando in quella direzione. Ormai è quello il modo di comunicare, ma io sono sempre stato piuttosto riservato, rinunciando a espormi sulla pubblica piazza. E’ un modo per promuovere la propria immagine, ma io ho sempre rinunciato a questo aspetto, anche perché quando torno a casa ho già i miei bambini che mi tengono parecchio impegnato”.
A proposito: i tuoi figli al momento sono piccoli (hanno 2 e 5 anni), ma se un giorno ti dicessero di voler fare i calciatori?
“Negli ultimi giorni il più grande ha proprio iniziato a dirmi di voler cominciare la scuola calcio. Al momento faccio ancora finta di niente, perché i bambini da piccoli vorrebbero fare qualunque cosa. Ora ha la passione per il tennis e per i cavalli. Vedremo. Questo è un mondo bellissimo, però arrivare non è così semplice. Servono una passione vera e una motivazione fortissima e io non ho alcuna intenzione di forzare i miei figli a fare qualcosa. Se c’è realmente passione, nulla potrà impedirle di emergere, perché solo con la forza di volontà e l’amore per lo sport che si pratica si possono superare i momenti difficili che, prima o poi, arrivano per tutti, e in quel momento bisogna farsi trovare pronti”.
La tua carriera è iniziata con le piccole squadre di provincia e poi si è sviluppata ai massimi livelli: vedi qualche parallelismo con il percorso di Lazzari?
“Sì, anche se sono storie diverse. Manu sta sorprendendo tutti e forse anche se stesso perché si sta confermando su grandissimi livelli. Detto questo, penso abbia avuto la bravura di aver trovato una realtà che è cresciuta velocemente, ma insieme a lui. Il suo percorso è stato differente dal mio, io ho cambiato tante squadre, ho dovuto riconquistare sempre fiducia, partire spesso da zero. Lui è stato la fortuna della SPAL e viceversa, ma questo fa capire quanti giovani forti ci siano in giro, ma che non hanno il privilegio di vincere qualche campionato come successo a lui, ma anche a me in passato. Arrivare a certi risultati è difficile. Manuel sta dimostrando qualità importanti, ma se non avesse vinto la Lega Pro e la Serie B dove sarebbe ora? Se l’è meritato eh, perché ha doti straordinarie che valgono la serie A, però la sua vicenda racconta anche di quanto sia davvero difficile emergere in un sistema come il nostro”.
Viene spontaneo pensare anche all’esempio di Mora: fino a quel campionato vinto in B non aveva mai frequentato la categoria. Ma si potrebbero citare anche altri esempi della SPAL recente.
“Vero, non aveva mai giocato in B. Quando sono arrivato a Ferrara ho trovato un gruppo incredibile e il segreto della SPAL è stato questo, di avere dei bei gruppi. C’erano personalità diverse, ma ci si è sempre integrati bene. Quando si ha a che fare con persone intelligenti le differenze diventano una possibilità di arricchimento per tutti. Nel nostro gruppo ognuno veniva accettato per quello che era, senza dietrologie o chissà quali pensieri”.
Quando Mora è andato via dalla SPAL però ha anche fatto capire che la sua interpretazione del ruolo di capitano non andava a genio proprio a tutti, o almeno a chi lo interpreta in maniera più convenzionale.
“Eh, se non si capisce il personaggio sì, può capitare. Ma se andavi oltre e capivi che tipo di ragazzo è Luca ti tornava tutto. Quell’anno ho trovato davvero un gruppo di ragazzi incredibili, al di là del calcio”.
Si dice anche che la svolta l’anno scorso sia arrivata quando il gruppo si è compattato e si sono creati legami più forti anche fuori dallo spogliatoio.
“Questa sensazione di legame fuori dal campo l’ho avuta fin dal mio arrivo ed è sempre stata una caratteristica dei gruppi della SPAL. Anche adesso si cerca di mantenere quello spirito e non c’è mai stato un momento in cui ci siamo detti di fare delle cene per migliorare i nostri rapporti. Poi è chiaro che nei momenti di difficoltà certe qualità vengono fuori ancora di più e vuol dire che ci sono sempre state. Se non emergono, vuol dire che mancava qualcosa. Alcuni valori al momento giusto hanno più peso delle difficoltà che si affronteranno, che affrontiamo e che affronteremo. Questo è il nostro percorso. Ma è così per tutte le squadre”.
Schiattarella qualche giorno fa ha detto di non prestare troppa attenzione a ciò che viene detto e scritto sui media. E’ un approccio che condividi?
“E’ da un po’ di anni che ho fatto la scelta di leggere poco o nulla, perché dentro di me so come stanno le cose a livello personale e di squadra, non è una pagina di giornale che mi fa cambiare opinione. So di poter avere più equilibrio dalla mia professione”.
Quindi se dovessimo ritrarre il Sergio Floccari extra calcio, in cosa lo vedremmo impegnato?
“In questa fase sono molto concentrato sulla famiglia: i bambini sono ancora piccoli e richiedono impegno ed energie, per cui negli ultimi anni ho accantonato alcuni interessi che avevo. La vita è fatta di fasi diverse e questa è la fase del papà”.
Questa tenerezza stride quasi col soprannome Boia, che ti è stato appiccicato addosso ai tempi della Lazio.
“Quando arrivai alla Lazio ebbi subito un certo impatto, con dei gol nelle prime partite. Forse era un modo che i tifosi avevano per farmi capire quanto apprezzassero il mio apporto. Se lo intendiamo così mi piace, è un soprannome forte. Qua invece al mio arrivo si è scherzato per la capigliatura, effettivamente i capelli stavano belli fermi in qualunque situazione. Ma questa cosa è durata cinque o sei mesi, adesso i capelli sono cresciuti e metto meno gel: col tempo si cambia anche in queste piccole cose”.
a cura di Alessandro Orlandin e Costantino Felisatti