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Ha ragione un amico mio quando dice: “Abbiamo fatto all’amore. Non si spiegano in alcun altro modo le sensazioni che abbiamo provato. Ci siamo svegliati domenica mattina con un sorrisetto ebete, di chi c’era, di chi ha visto e partecipato ad una delle più belle partite della nostra storia. La curva ha trascinato la squadra, la squadra ha trascinato lo stadio, lo stadio si è portato dietro l’orgoglio e la fierezza di una comunità.
Imboccando via Paolo V all’uscita, discutevo con un amico sul fatto che qualcuno, imperterrito, continua a descrivere tutto questo come una partita di calcio, come un evento sportivo. Peccato per loro, la S.P.A.L. per noi è un’altra cosa, una famiglia, la nostra storia, l’amicizia, la solidarietà, il senso di appartenenza, la felicità dello stare insieme, un bicchiere di birra, le lacrime, non sprecate, di un mondo solo nostro che ci protegge dalla realtà, diventando essa stessa realtà e gioia di vivere.

Ma partiamo dall’inizio. La partita la sentivo tanto, oscuri presagi mi ronzavano per la testa, vedevo i corvacci, neri e malefici ruotarci intorno, pronti a banchettare sulla carcassa del cerbiatto. La faringite mi attanaglia da un paio di settimane e la beneamata non è immune da colpe. Le corde vocali, laringe, faringe e tonsille (che non ho più da quarantacinque anni), sono rimaste incastrate sulla rete, dopo la mia uscita dal campo contro la Sampdoria. In pratica mi appresto a servire messa già senza voce e con la gola andata. Non è un buon segno. La cura nei particolari dell’abbigliamento pre-stadio è più maniacale del solito, segno evidente di disagio e sindrome paronoide, ma così è. Le scarpe da tennis, sempre quelle, anche se con un buco in punta, il braccialettino di gomma biancoazzurro realizzato dalle bimbe, la maglia (la terza maglia dell’anno scorso, che ho sfoggiato contro il Parma all’andata e contro l’Atalanta all’esordio nello stadio nuovo), due sciarpe, le solite (una al collo ed una al polso), ed il mio due aste.
Toccatina. Le ragazze all’offertorio mi accolgono con il loro solito splendido sorriso, una battuta e sono dentro. Uno striscione appeso verso di noi ci fa capire quanto sia importante fisicamente la nostra presenza e la nostra partecipazione – La libertà è partecipazione —cit.

I ragazzi entrano in campo sulle note di Enter Sandman. La curva si accende dieci minuti prima dell’inizio della gara e non si spegnerà più. Noi vogliamo gente che lotta, e i ragazzi in campo lottano come gladiatori nel Colosseo, assieme ad altri 14.000 invasati di SPAL. I tamburi, le ripetute, i battimani sono incalzanti, la grada risponde, curvino e tribuna fanno la loro, la curva Sud, non si sente. Roby ha cambiato marca di caramelle, ma per me, scroccatore seriale di ciucci, non è un problema, anche fossero sassi da cortile li gradirei lo stesso nella trance agonistica. Thiago si ricorda di avere sangue brasiliano nelle vene e pennella per Momo, il nostro laterale sale talmente in alto che si sporca i ricci di polvere di stelle, la palla scavalca il portiere della Roma. BOLGIA. Sembra un sogno, ci scrolliamo definitivamente di dosso la carogna delle ultime settimane, l’avvoltoio sulla spalliera sembra una cocorita, non ci fa più paura niente.
I ragazzi escono per l’intervallo tra applausi scroscianti. Le mani spesso soggiornano all’ombra.

Secondo tempo, solita carica della Ovest. Rigore per la Roma. L’aldaVAR conferma. Perotti segna e la curva incassa, traballa un secondo e poi ricomincia a picchiare sui tamburi, sulle ugole e sui cuori. Il loro pareggio sembra una carezza sulla faccia di Duran mani di pietra. Petagnone spalanca l’area avversaria come Clint entrava in un saloon. Rigore per noi. L’arbitro a due metri ci pensa. Lo scibile umano di bestemmie mi frulla per la testa, il diavolo mi sputa in faccia l’acqua santa. Ma, pare impossibile, aldaVAR conferma il penalty. Il nostro ragazzone la mette sul discetto, mancino d’oro, perfetto angolato. GOL. Abbracci e lacrime, frammenti di incontenibile gioia ci soffocano, la mia faringite può tranquillamente andarsene a fare in culo.

I restanti mille minuti che ci separano dal terzo fischio li viviamo come dentro ad una fumeria d’oppio: il tempo non passa, cantiamo, tutto lo stadio canta con noi, battimani perfetti, sembra un valzer austriaco. In quei momenti facciamo l’amore per davvero, la squadra lotta, noi li trasciniamo, ho paura mi venga l’orchite, ma siamo dei rulli compressori. Dopo, sei giorni di recupero, eccoli i tre fischi. Bello, fantastico, una sola lacrima secca mi arriva in bocca, la squadra saluta tutti i settori del Mazza. Noi vogliamo gente che lotta, e così è stato. Avanti tigrotti (cit.) alla prossima battaglia. Forza vecchio cuore biancoazzurro.