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Pensavo (e già questa è una cosa grossa): questa pandemia, parola a cui ancora dopo mesi non mi sono abituato ha cambiato la mia percezione della realtà. In tanti, troppi, parlano e pontificano su argomenti ultra specialistici, su cui pure gli esperti non sanno che cazzo dire. I social pullulano di virologi, infettivologi, esperti di catastrofi, economisti, agenti segreti, manager esperti di ogni scibile umano. La politica, in generale ha dato per la maggior parte il peggio di se stessa, continuando ad innaffiare l’orticello e pontificando sul non è colpa mia. Ma tutto ciò è stato ed è ampiamente (pure troppo) discusso.

Io invece vorrei rivolgere un pensiero a chi invece è in down da S.P.A.L., tutti quelli a cui questo merdoso virus ha tolto la gioia di una domenica tra amici, abbracci e passioni. Chiaro che quello che scrivo è un briciolo infinitesimale se riferito alle vere tragedie che si sono accatastate in questi pochi mesi, non vorrei passare per irrispettoso e ne sono ben consapevole. Ma, lasciatemi dire, la primavera quando arriva emana dall’erba del Mazza un profumo irresistibile: le maniche corte, le magliette della curva, le maglie della beneamata, ognuno con la propria, quella della serie A, quella di vent’anni fa, quella dei tempi di Gibì, quella rossa, quella gialla, tutte insieme, legate da una sciarpa. Sono un’immagine che restituiscono l’aria. In questo periodo poi, in cui il respiro è spesso affannoso dietro ad una mascherina e i profumi sono distorti da questo essere sospesi. Ho spesso ripetuto che la categoria non conta, non ci interessa. Ci interessa esserci, toccarci, abbracciarci, piangere e ridere. In queste settimane, noi contagiati dal virus della spallinità abbiamo postato e ricordato mille date, mille fotografie di gioie immense ed inesplicabili. Ma ora, quando potremo rivivere insieme la gioia della curva?

Questo campionato, almeno per me, è finito prima di Parma-SPAL. Non ricordo nemmeno qual è stata l’ultima partita in casa. Poco mi interessa se sarà tutto congelato, se ci sarà una retrocessione a tavolino, passerà dai play-out, verrà assurdamente ripreso fra mille tamponi, allenamenti individuali e mascherine. Tanto in ogni caso tutto si svolgerà senza di noi e quindi per me non esisterà. La mia preoccupazione più grande è per il prossimo anno. Come, quando, con che limiti? Nessuno è in grado di ipotizzarlo, anche se pensare ad un’apertura completa sembra quasi assurdo, come assurdo sarebbe mettere celle, distanziamenti, D.P.I. in un luogo dove la distanza è nulla, dove le persone si accalcano per un gol. Non si esulta col silenziatore, non si gioisce moderatamente. Non siamo ossimori, o tutto o niente. E allora? Allora non lo so. Rimango nella mia solitudine sociale, ligio ai precetti che la protezione altrui passa tramite la protezione mia, inforco la Fase 2 senza enfasi, attendendo la Fase 4 o 5. Io voglio cantare dai gradoni, in preda ad una gioia straziante, con le lacrime agli occhi per il primo gol sotto la curva che vedrò. Abbracciato ai miei fratelli in una commistione di umori che non prevede la presenza di nessun virus.

Chissà fra quanto tempo succederà
Chissà chi segnerà quel gol?
Chissà in che categoria?
Poco importa. La speranza è che sia presto e senza ma. La nostra malattia è la nostra vita e l’una come l’altra hanno bisogno di cure, un colpo di testa, un tiro da fuori area, un rimpallo fortunoso, un rigore al 90°. Per poi riattivarci gli anticorpi di una sindrome di nome S.P.A.L. che ci attanaglia da quarant’anni e che vive e sopravvive solo grazie alla nostra passione senza né limiti e né limitazioni. Forza vecchio cuore biancazzurro, continua a battere al ritmo dei nostri tamburi.