Se è vero che le altre partite di questo finto campionato le sentivo come l’esordio della Pievigina, questa non era così. Questa partita doveva essere la chiusura del cerchio, il saluto degli eroi ad un palcoscenico da favola dove anche solo per una notte i proletari vincevano sui padroni. Quella in cui la provincia si riprendeva con gli interessi la rivincita sulla metropoli, quella in cui gli arroganti milanisti soccombevano nell’afa di una notte ferrarese di luglio. In uno stadio maledettamente vuoto. Ma noi siamo spallini, non dimentichiamocelo mai. I fasti di questi anni Colombariniani non ci tolgono la pelle di ciò che siamo sempre stati. Impastati nell’argilla, nella nebbia e nella sfiga. Consoliamo i bambini e i ragazzi giovani, oramai abituati a questi grossi palcoscenici. Noi abbiamo visto stadi dove si entrava in bicicletta e la rastrelliera era appoggiata alla recinzione, sul lato lungo del campo. Provo ad autoconsolarmi, ma non mi passa.
La giornata mi stava dando dei segnali già da mezzogiorno. Dopo avere preso un fetido SO (insalatone) con degli aberranti gamberi surimi alla mensa di cantiere, l’ho consumato nel mio bunker climatizzato (da poco), guardando le immagini della festa di Terni. Una forchettata e un magone. Immagini viste un milione di volte, chiaro segno di disagio, segnali del down causato da questa astinenza forzata che ci impedisce di succhiare il metadone che secernono quello stadio, quella maglia, quei colori. E mi vien voglia di bestemmiare. Fra l’altro, prima della partita sono stato a bere una birra in un locale, noto covo di comunisti, proprio dietro lo stadio. Ho parcheggiato a un chilometro di distanza, dove di solito metto la macchina per andare alla SPAL. Camminare per viale IV novembre mi ha creato un senso di malinconia stronzo che non vi dico. Sapermi così vicino e non poter entrare, non poter abbracciare i miei compagni è una cosa atroce. E’ una parete divisoria, opaca e sottile che ti tiene lontano dall’oggetto dei tuoi desideri. Quando scrivo ‘ste cazzate poi capisco perché la gente dice che leggendomi gli viene la spapla, sembro una cipolla di tropea rancida.
Sono in casa da solo, le mie donne sono al mare dalla nonna. Devo allungare il brodo per arrivare al momento del collegamento su radio Rai, Tutto il calcio minuto per minuto senza più nessuno dei mostri sacri che hanno fatto di questa trasmissione un must della mia infanzia.
Preparo una cena luculliana, un pacchetto di cracker, mezzo etto di speck, una caccola di Philadelphia light, due albicocche e un paio di bicchieri di sguazzo con un “ottimo” Ronco rosso e acqua gasata. Roba da chef stellati, anzi di Stellata. Il tempo del collegamento non arriva. Mando qualche articolo a un amico. Mi guardo un po’ di Vasco, mi scrivo con gli amici della chat spallina, il famoso collettivo di poeti e letterati Laps. Si parte e zaac, 1-0 per noi. Si sparge la voce, pare abbia segnato Sergio, impazzisco, ma il gol è del figlio di Aladino. Va bene lo stesso. I telecronisti mi sembrano sbilanciati per i meneghini. Odio l’umanità malevola e il capitalismo rapace, che non è in grado di convivere con la natura in un mondo talmente piccolo in cui un cazzo di pangolino scatena la fine del mondo. Mi sarebbe bastato esserci. Poi accade l’impossibile. Sergione mette uno dei gol più belli degli ultimi trent’anni. Ma io non lo vedo, lo ascolto, i commenti parlano di magia. Ma eccola, pronta e malefica, la sfiga nostra, quella che impone a un gatto nero, mentre passa sotto la scala e rompe uno specchio, nel vedere i nostri colori di toccarsi sotto coda. Rosso diretto a D’Alessandro. Bestemmia.Soffriamo, ci mancherebbe. Chiudiamo il primo tempo in vantaggio di due gol, impossibile.
Intanto io cammino avanti e indietro. Dieci metri camminati per cinquanta minuti, ininterrottamente, quanti chilometri sono? Cento? Forse. Il mio sogno di quest’anno è la vittoria sul Milan con un eurogol di Floccari (Cavallo mi è testimone), sarebbe come vincere il campionato. Meglio di vincere il campionato, i fili della memoria e della giustizia sportiva si ricollegano, per Franco Ogliari, per Oriano Grop, per i 23mila del 1980, per mio padre, mio nonno, per Tano e Minguelo. E invece no. In dieci teniamo testa a una squadra di bambini viziati, becchiamo il 2-1 e al 93° in perfetto stile SPAL, autogol di un fino a quel momento perfetto Vicari. Tutto crolla, come sempre.
Fra l’altro un euro-autogol, lontano dalla porta in scivolata. Abbiamo venti infortunati e due espulsi (D’Alessandro e il mister). Ma abbiamo una cosa che gli altri non hanno. Il nostro capitano si chiama Sergio Floccari e di mestiere fa dei gran gol. Ti prego mister, fallo giocare ancora. Non ci salveremo, ma metteremo nell’archivio della memoria le movenze di un bambino calabrese che si diverte a giocare al calcio come lo intendiamo noi. Sacrificio e passione. Ha quasi quarant’anni, il tempo che io e tanti altri abbiamo passato su quei gradoni di cemento. Un goal del boia vale il prezzo della sfiga perenne che ci attanaglia. Da sempre. Forza vecchio cuore biancazzurro.