Gentilissimi giocatori della SPAL,
posso tutto sommato capire che in queste circostanze sia faticoso. Giocare dopo mesi di inattività e di ansie assortite e per di più farlo ogni tre giorni in piena estate, senza aver onorato la classica vacanza a Formentera con tutti gli altri vostri colleghi. Però nemmeno andare in campo come se la mente fosse già alle Baleari o in qualche altra località balneare è particolarmente dignitoso (o produttivo), né per voi, né per chi vi stipendia, né per chi vi sostiene senza poter assistere di persona alle vostre partite. A maggior ragione se c’è un mesetto di campionato ancora da disputare.
Se giovedì lo stadio fosse stato aperto al pubblico, avreste lasciato il prato del Mazza sotto una pioggia di contumelie che la metà sarebbe bastata. La peggiore degli ultimi anni, probabilmente. E ve la sareste ampiamente meritata. Con tutta probabilità avreste finito col prendere il supplemento anche in corso Piave e questo in una città in cui le contestazioni sono rare e non travalicano mai il confine del civile, per quanto contrassegnato da una profonda rabbia. Pensate che una volta presi i vostri rimproveri, avreste potuto anche sorseggiare una birra a tarda sera in via Carlo Mayr o in piazza Municipale e nessuno vi avrebbe detto una parola fuori posto, se non in preda ai fumi dell’alcol. Questa è Ferrara, una città che vi offre anche il diritto di fare pena e rimanere comunque (giustamente) indisturbati, in quanto cittadini come gli altri. Fidatevi se vi dico che non capita a tutte le latitudini. E fidatevi se aggiungo che qui di calciatori inguardabili e indolenti se ne sono visti assai e che alcuni di loro avrebbero meritato di sentirsi un filino più in colpa.
Ma la rabbia che anima (e continuerà ad animare, presumibilmente) i tifosi non sta negli svarioni in difesa o nei passaggi sbagliati o nei gol che non vengono fatti. Sta piuttosto nel desolante senso di sconforto che evocano i vostri linguaggi corporali. Quelli di una squadra che non ci prova nemmeno più. Che va in campo perché lo dice il calendario e poco altro. Che ha paura di sbagliare e sbaglia comunque, che si è rassegnata a un destino che sarà pur inevitabile ma può essere affrontato con (almeno) una parvenza d’orgoglio. Non vi si chiede di capire perché quella maglia significa così tanto per così tante persone. Non vi si chiede di lottare alla morte per qualcosa in cui non vi identificate né vi potete identificare con facilità. Ma almeno chiudere a testa alta, dimostrando che non ci state a essere presi a pallate da chiunque, quello sì. Lo stanno facendo Brescia, Genoa e Lecce, non si capisce perché non abbiate la possibilità di farlo pure voi.
Avrete senz’altro validi motivi per sentirvi a corto di motivazioni. Non deve essere facile prendere atto del fallimento di una stagione per tante ragioni disgraziata. Perdere in continuazione, segnare quasi mai, cambiare allenatore a febbraio, giocare in piena estate. E’ un subdolo logorio che anche i calciatori della categoria amatori finiscono col portarsi dietro. Tra l’altro alcuni tra di voi sono palesemente zoppi, altri stanno stringendo i denti, altri ci tengono per davvero ma si ritrovano a diventare lodevoli eccezioni in una grigia mediocrità. Altri ancora sanno già di dover programmare un trasloco dopo le ferie, comunque vada. Alcuni saranno infelici per come sono stati trattati, altri avranno passato gran parte dell’anno a pensare che avrebbero meritato un contratto migliore o più considerazione da uno o dall’altro allenatore. Fortunatamente stavolta nessuno s’è lamentato per la mancanza di garze in infermeria. Ad ogni modo lo so che le vostre vite possono essere complicate e andare oltre allo stereotipo dell’uomo (più che) benestante che fa uno dei lavori più belli in assoluto e non ha pensieri. Siete essere umani e avete il diritto d’essere fragili e pure scoglionati.
Però siete pur sempre professionisti, pagati adeguatamente e con puntualità. Rappresentate una maglia, una storia, un territorio. In più di un secolo di storia la SPAL non è MAI arrivata ultima in un campionato. Né in A, né in B, né in C (1 e 2). Neanche in quei campionati pre-guerra divisi a gironi. A voi della storia fregherà senz’altro il giusto e non è niente di così preoccupante o sorprendente. Però a tante persone là fuori la storia interessa eccome, perché rappresenta un vissuto, un luogo, un intreccio di vicende personali che hanno quasi sempre come elemento cruciale l’identificazione in quei due colori che indossate in campo.
Per cui vi chiedo, da signor nessuno che vi osserva ormai da luglio dello scorso anno: in queste ultime sette partite che sembrano un’infinità vi dispiacerebbe impegnarvi giusto un minimo di più per evitare l’ultimo posto? Lasciare almeno il pallido ricordo di una squadra che ci ha provato? Davvero non provereste anche solo una punta di dispiacere nel passare alla storia come i giocatori che hanno portato la SPAL al suo unico ultimo posto in 108 anni? Non rimarrà scritto nei vostri profili su almanacchi e social network, ma per tanta gente – che in circostanze diverse vi ha applaudito e sostenuto – sarà un ricordo davvero amaro da rievocare.