C’è poco di poetico e molto di prosaico nel ritrovarsi a fare un viaggio di pura immaginazione mentre si è di fronte ad un lavandino, per di più nei bagni di uno stadio semivuoto. Eppure può capitare anche questo e l’onanismo, fortunatamente, c’entra nulla.
Intervallo di SPAL-Ascoli, punteggio parziale di 1-1. Mentre le poche decine di presenti al “Paolo Mazza” cercavano un modo per ingannare l’attesa – e uno tra i tanti consiste nel recarsi alla toilette – un coro ha iniziato a risuonare nei dintorni di corso Piave.
E biancazzurri siamo noi /
nessun ci fermerà /
il nostro cuore batterà /
sempre solo per la SPAL /
Ooooooohooooooooh
Sarà stata l’acustica di spalti e corridoi deserti. Oppure la solitudine. O forse solo la disabitudine a certe onde sonore ormai indebolite dal tempo. Sta di fatto che lì, in quel preciso momento e in quel luogo così desolatamente austero, per alcuni istanti poteva sembrare tutto vero. Al punto tale da indurre a percorrere a ritroso il tragitto verso la tribuna, salire le scale e girarsi verso la Ovest per rivedere finalmente tutti al loro posto. Senza distanze, senza mascherine. Con tutte quelle bandiere e quei due aste esattamente nel punto dove ci si aspetterebbe che siano. Ovviamente poteva essere solo un’allucinazione e neanche di quelle sintetiche.
Gli altoparlanti un po’ gracchianti dello stadio stavano solo tentando, con le migliori intenzioni, di creare un’atmosfera adeguata per conferire un minimo di solennità a una piccola cerimonia che ha visto la consegna di un assegno di 7mila Euro a Devis Pareschi, il papà dei piccoli e sfortunati Edoardo e Clarissa. Un’iniziativa che ha visto gli ultras in prima linea e anche solo per questo ha giustificato la riproduzione di quel coro così sentito e appassionato.
Fortunatamente, in questo anno di calcio in provetta, alla SPAL non è mai saltato in testa di far risuonare migliaia di voci registrate per accompagnare le gesta dei suoi stipendiati e già questo è meritorio. Sarebbe stato abbastanza avvilente, oltre che un po’ irrispettoso. La liturgia della SPAL deve avere il calore dei cori, dei corpi, della partecipazione spirituale, non certo di quella virtuale.
Chissà se a questo, certi stipendiati, ci pensano mai. Perché molto spesso quella della SPAL è una liturgia di fede, di appartenenza e di sostegno quasi incondizionato, ma può trasformarsi anche in un processo con migliaia di testimoni e giurati. I reduci del pezzo di stagione 2019/2020 senz’altro ne sanno qualcosa; a quegli altri non è ben chiaro se sia così. A chiudere gli occhi dopo i tre fischi di Giacomelli, non sarebbe stato difficile immaginarne parecchi altri e tutti prodotti da apparati respiratori più o meno funzionanti, oltre che sprovvisti di particolari filtri che non fossero delle sciarpe biancazzurre usate per ripararsi dall’inusuale gelo d’aprile.
Un paio di giocatori sono effettivamente rimasti impietriti in campo al termine della partita, quasi in stato di contemplazione. Una contemplazione del nulla, perché attorno a loro c’era quello. Anzi, c’era un suono: quello dei festeggiamenti dell’Ascoli riunito in un rumoroso girotondo che di questi tempi rappresenta un privilegio raro. Si può dire che da entrambe le parti ci si potesse considerare fortunati, per ragioni diverse. In serate del genere i giocatori possono concedersi il lusso di una confortevole indifferenza instillata tra i tifosi della loro squadra, indotta grazie ad un andamento ondivago, capriccioso, privo quasi sempre di quell’energia che riesce ad avvicinare una squadra alla sua gente. Disconnessi e separati da quella che dovrebbe essere la loro comunità, restituiscono il riflesso deprimente del calcio e della società del distanziamento: fanno quel che devono fare e aspettano tempi migliori, che tanto a chi vuoi che gliene importi? Certo, non è ancora finita, ma un pezzo del lavoro sembra già fatto. Questa SPAL rischia di diventare una squadra ricordata quasi esclusivamente per una lunga lista di ragioni sbagliate. Ci voleva del talento anche a immaginare una roba del genere, tutto sommato.