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Tic, toc, tic, toc, tic, toc…

È arrivato il momento: da quanto lo aspettavamo? Anni, secoli, millenni, è un po’ come quando il colonnello Bernacca diceva: “Trenta gradi a Ferrara, percepiti 46”. Un’attesa infinita e nel mezzo la fine del mondo in tutti i sensi: stravolgimenti causati da un piccolo merdoso esserino, da una retrocessione e da un campionato abulico, dalla vendita della società, da un’estate di incertezze, da una prima in casa senza il cuore della curva e poi. Sì, ci metto il punto dopo il poi, arriva il momento che ho immaginato da un secolo. L’acquisto del biglietto farraginoso, scalato dal voucher, dopo due ore di lavoro al computer da parte mia e di mia moglie e sono riuscito ad accaparrarmi il ticket. La notte della vigilia è trascorsa abbastanza serena. La mattina del sabato, tra due buchi nel muro fatti col trapano, una sguazzata al giardino e due toast è volata. Con largo anticipo, e dico largo, percorro la mia personale via crucis verso il tempio. Parcheggio dalle parti dell’hotel Orologio, maglia della prima o della seconda serie A con il mio cognome e il numero 6 sulle spalle. Un orgoglio immenso, il mio sogno da bambino, mai realizzato, ma anche solo indossandola quella maglia ci si ammanta di immortalità. Via Paolo V° e sono davanti alla casa del custode. Le cancellate metalliche in stile Berlino Est mi separano dal monumento alla passione di corso Piave. Gli addetti della Stasi mi chiedono ogni sorta di documentazione: biglietto cartaceo, green pass, carta d’identità, passaporto valido per l’espatrio, analisi del sangue, spermiogramma, scansione della retina e sono dentro. Quel cazzo di ultimo tornello non vuole aprirsi: non legge il mio foglio stropicciato. “Un’offerta per la curva” mi dicono le ragazze. Quanto tempo, che voglia avevo di vedervi, vorrei versare un milione di euro ma non ce l’ho, verso ciò che posso. Carte, scartoffie, portafogli, un casino infinito, ma pare mancarmi qualcosa. La sciarpa l’ho al polso, dentro sono dentro, la birra la sto per ordinare e manca il mio due aste. Credo sia dall’ultima serie C che lo portavo, ora è a casa, non so le regole ed è rimasto stoccato tra lo scopone e la scopa da interno.

Risalgo la scala di accesso, mi tremano le gambe, vedo Paolino e gli chiedo di farmi una foto in salita. La fa. È una foto di merda, ma gli voglio bene lo stesso. Finalmente sono dentro. Lancio baci a destra e manca, mi sembra di essere Al Pacino sulla Croisette, sono a casa, finalmente, penso a chi non è entrato e a chi non può entrare, vorrei ci fossimo tutti, vivi e morti, vorrei una curva grande quarant’anni, per poter abbracciare tutta la nostra gente, vorrei la festa più bella del mondo. Le facce, i sorrisi, le magliette, le sciarpe, mi sembra di essere nel paese delle meraviglie. E infatti ci sono. Il cappellaio matto, Alice, lo Stregatto, ci siamo tutti. Lassù, non troppo in alto c’è la mia banda, manca ancora molta gente, ma cominciamo a crescere numericamente. Che voglia che avevo di vedervi. Non torno sul concetto del tempo che passa, perché ho già rotto i maroni abbastanza e in più non sono Marcel Proust. Iniziamo a cantare all’ingresso dei ragazzi in campo, non ne conosco mezzo forse riconosco Vicari. Suria mi indica ognuno dei nostri per cognome e ruolo: grazie, ma io imparerò a conoscerli forse verso aprile. Ma non è importante basta che indossino la mia casacchina. Sono i più forti del mondo per antonomasia, non si discutono. La curva canta e canta e canta.

Primo tempo da campana e martello, undici demoni in campo azzannano i garretti di tutta la Brianza Alcolica. Il concetto di pressing andrebbe aggiornato, negli almanacchi andrebbe scritto “quel lavoro che fanno i ragazzi di Pep durante la partita col Monza”. Un magma nichilista che sfocia nel gol di Colombo, o almeno così mi hanno detto i ragazzi del reparto geriatrico attorno a me. Come sempre le facce si sformano, Fede piomba nei gradini sottostanti, si scortica una tibia, ma non fa male. Belli, bellissimi, in panca mi sembra di scorgere il sor Mario, ma invece è Pep. Aggressivi, tignosi, pieni di livore sportivo, assetati del sudore altrui. Primo tempo da manicomio. Secondo tempo: i brianzoli si ricordano che devono vincere il campionato, hanno speso come per allestire una squadra da Champions League, hanno acquistato Djalma Santos, Nilton Santos, Didi, Vavà, Nené e Rivelino, leggero predominio territoriale per una ventina di minuti, Mario Pep, ha il cambio in canna ma becchiamo il pareggio.

La curva risente della lunga inattività, occorreva una preparazione specifica per le ugole, ma dura poco, si ricomincia a cantare ad un buon volume. Parapparapapparapara / segna per noi / vogliamo vincere. E ci proviamo, certo che ci proviamo. Noi si gioca con tre punte, chi c’è di fronte non è importante, questi hanno la maglia rossa ma non sono il Manchester United. Noi siamo la S.P.A.L., nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato. Percepisco nettamente dalla panchina un “cambia tutto” on la c aspirata è lo spirito di Mario Caciagli, che sprona i ragazìt. Chiudiamo all’attacco, i rossi si siedono a terra allungando i tempi perché hanno paura. Noi no. È stato davvero bello. Ho ritrovato una parte di me che mi era stata sottratta per due anni, un tempo immemore per uno spallino dipendente. Quelle corse in campo, quelle urla, quelle grida, quelle canzoni, quei sapori, quegli odori, le ho nella ricetta della Mutua dalla fine degli anni Settanta. Mi fanno stare bene, sono endorfine necessarie, non posso smettere di assumerle per così lungo tempo. Ma ora siamo a casa, gustiamoci questo campionato, manteniamo questo fuoco e instilliamo la paura negli occhi degli avversari. Perché noi siamo la S.P.A.L., la S.P.A.L. di Ferrara. E loro no. Forza vecchio cuore biancazzurro.

 

foto: F. Rubin
(eccetto quella del gruppo in curva, ovviamente)