Il 13 maggio per noi è festa nazionale. Sembrano passati cinque minuti, cinque giorni, cinque anni, cinque secoli. È stato scritto tanto sull’avvenimento ed è ancora troppo poco. Non lo si può capire: è inconcepibile, la nostra mente alle volte si rifiuta di crederci, sembra uno di quei sogni talmente belli e talmente reali che si dissolvono al suono della sveglia del lunedì. E tu non ci credi che sia stato un sogno, perché ti guardi allo specchio e hai gli occhi gonfi. Ma non è stata la notte. Ti senti leggero e pesante allo stesso tempo, in un bagno di sudore, ti tremano le mani e le gambe, vorresti sederti sul cesso, ma ti ritrovi accasciato sui gradoni di un vecchio stadio a cinque minuti dalla fine della partita. Pare sia tutto sfumato, gli undici leoni in campo sono sulle gambe, hanno fatto un campionato eccezionale in cui doveva essere salvezza e infatti a febbraio eravamo salvi. E tu, ormai adulto alle soglie dei cinquanta, sposato, con tre figlie, in gennaio hai smesso di dormire. Durante il lavoro ti accorgi di pensare alla prossima partita, senti i cori della Ovest nella tua testa, non hai pace né tregua. Il pensiero è sempre là.
Dai, sei esagerato. Sei un uomo adulto, forse non troppo maturo, ma sembri ancora Tano bambino di borgata. Solo con gli occhi e la mente di un bambino si può spiegare quello che è accaduto. Siamo stati travolti da un’onda grande come la gradinata del Liberati, che ha avuto inizio un anno prima con l’alluvione sul Mazza contro l’Arezzo. Della promozione in B mi ricordo una foto: un braccio sulle spalle di un amico, mentre lui guarda perso la curva dal pantano del campo. Occhi di un bambino per l’appunto. Poi, un anno dopo, il campionato più lungo del mondo. Vinciamo, vinciamo e vinciamo. Da dove cazzo stiamo andando, ho le vertigini. Dai è impossibile, prima o poi schiattiamo, vedrai che dopo Natale ritorneremo a lottare per mantenere la categoria. Non possiamo tenere fino alla fine. Il Lupo segna come un ossesso, ma pure il Cobra gli dà una mano. Poi Luca, Schiatta, Eros, il portierino che è uno spettacolo, Giani, il Samurai. Poi ci compriamo il Boia. Ma è vecchio… è stato un grande, ma ora sembra stanco. A Bologna non ha fatto bene. Mancano 15 minuti alla fine col Benevento. Sergio Gel entra in campo, fa due passi dentro l’area e spicca il volo. Laggiù in basso il suo marcatore lo guarda allibito. Con la brina sul ciuffo la picchia di testa e spappola il ragnetto dell’incrocio, proprio sotto la Ovest. Di fronte a me, dietro il curvino, vedo una luce mariana. Io, ateo e comunista, mi sento come Bernadette di fronte alla grotta di Lourdes: “Oh ragaz, qui se Floccari ci fa dieci goal andiamo in serie A”. Gli amici mi insultano, quella lettera è impronunciabile, tutti noi avremmo bisogno di un logopedista. Come si chiama quella lettera con cui inizia l’alfabeto? Boh e chi lo sa? Noi conosciamo già poco la seconda lettera, ma siamo pratici della terza e pure della quarta.
I giorni passano, i mesi volano, anche per te (cit.) così diceva una vecchia canzone di Naja. Coda interminabile in settimana per prendere i biglietti, ma non è possibile mancare. Ho lo sguardo del serial killer mentre attendo il mio turno per entrare dal tabacchino. Siamo in via Bologna a poche centinaia di metri dal Cisòl. È mattina presto ed è il 13 di maggio. Siamo agghindati a festa, lo striscione vecchio di trent’anni è con noi, si contano le macchine, si insultano i ritardatari, io arrivo un secolo prima dell’orario pattuito dopo una notte chiaramente insonne. Un amico arriva a piedi da via Volano (!). Quando uno è un atleta è un atleta, ma siamo in ritardo di dieci minuti sui piani. Dai c’anden. La mia Multipla a metano è colma, siamo in sei, sui falsi piani della E45 devo mettere la quarta e alle volte la terza, ha uno sprint che mi si schiacciano i moscerini su vetro posteriore per quanto vado piano. Primo autogrill, prima sosta e prima (o forse seconda) birra. Alla fine le 33 non si conteranno, ma il luppolo mi evapora addosso, sono lucido come un chirurgo durante un intervento a cuore aperto. Sono concentrato, teso e ansioso, suono ad ogni macchina che vedo esporre un vessillo bianco e azzurro. La strada è lunga ma la mia compilation rock ci accompagna. Ci raccontiamo di eroiche trasferte passate, di memorabili partite antiche, ma ciò che stiamo andando a fare ancora non è capito da nessuno. Chi azzarda previsioni viene preso prima a parole e poi schiaffoni. Zitti! Silenzio! Non svegliamo la Dea Eupalla, che da Ferrara è passata l’ultima volta mezzo secolo fa.
Parcheggiamo dentro allo stadio, occupiamo i nostri posti, vicino al campo, PIGS è legato in alto, ma noi stiamo in basso. Il Lupo la mette. Ma la gioia dura poco. Cominciano a giocare le Fere, 2-1 per loro, il Frosinone ci sbuffa sul collo. Finisce il primo tempo e finiscono pure le birre al bar. Nell’antistadio sembra di essere fuori da una camera mortuaria: lacrime, disperazione, clima pesante, un amico va in macchina e ascolta la partita per radio. Passano i minuti del secondo tempo e mi accascio, sempre più in basso. Sono spalmato sui gradoni sgarruppati del Liberati. Scende dall’alto un amico e si piazza di fianco a me. No, non ce la facciamo, sta sfumando tutto. Poi segna Ceravolo. Ma dove cazzo gioca Ceravolo? Ah sì, e quindi ora cosa capita? La matematica di cosa? Che cazzo state gridando tutti? Non è possibile, non è vero, non ci credo, non prendetemi per il culo. Piango, piango a dirotto, singhiozzo, sono abbracciato a un amicone e piangiamo felici (ossimoro). Ma tutti stanno piangendo, si ride, si grida e si piange. Poi i ragazzi sotto la curva, il mister, il pres, il vecchio Franz. Poi bandiere, canzoni, sudore, umidità di tutti i liquidi di tutti i mondi. E tanto già lo so / che al novantesimo / segna Ceravolo (e l’anno prossimo gioco all’Olimpico). Io l’ho vissuto e no, non è stato un sogno. Buon 13 maggio festa nazionale a tutti.