foto Filippo Rubin
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Ho due possibilità. O non scrivo oppure cerco di non scrivere di getto. Perché se adesso attaccassi a scrivere senza pensare farei la fine del piccione che gioca a scacchi. Guarderei inebetito il foglio bianco, salirei in piedi sulla scacchiera, ribalterei a terra le pedine, scagazzerei ovunque e me ne andrei tutto impettito. Quindi cercherò di non fare il piccione. Che poi a dire il vero non sono neppure arrabbiato. Sono sconfortato, triste, rassegnato. Che è pure molto peggio, perché la rabbia ti tiene vivo, ti fa produrre endorfine, che seppur non positive ti danno carica e grinta. Che io adesso, a poche ore dalla fine della partita, non ho. Finché la matematica non ci condanna mi sembra il pari di finché morte non ci separi. Lotteremo fino alla fine, ma chi? Noi sì, certamente.

Faccio IV novembre con Mela, lui col bomber del 1992, io con la maglia dell’Imperatore Giorgio. I passi, quei mille passi sempre uguali, atavici e che si perdono nella notte dei tempi, noi che siamo nati a un chilometro dal tempio, quel ponte, quella discesa, quel viale alberato, il muro sgarrupato della fortezza, il parcheggino, via Paolo V°, la casa del custode (che non c’è più). Quante volte abbiamo percorso quei passi? Un numero infinito di volte. Rimango in debito con le ragazze alle offerte, non ho il becco di uno spicciolo, prossima partita offerta doppia, promesso. Saluti, pacche sulle spalle, abbracci, tutto come da copione fino a che non ci accomodiamo sulle nostre mattonelle. E mano a mano che si riempie la geriatria noto una curiosa affinità tra tutti noi. Ognuno indossa il cimelio più antico che ha, simboli di una S.P.A.L. che fu, della nostra gioventù, del nostro attaccamento antico. Io indosso con fierezza la numero quattro del 1992, Mela il bomber dei primi anni Novanta con annessa spilletta ingiallita, Fede ha la maglia del 16 giugno 1991, in molti hanno al polso o al collo la prima sciarpa dei PIGS, in tessuto grezzo e doppio. Portiamo i due aste che da un po’ non ci accompagnano. Insomma scaviamo nella cabala più antica, ci attacchiamo alla speranza della magia nera.

La coreografia sale che è un piacere, fare parte anche se senza merito di un movimento che da ultimi in classifica tutte le partite inventa e crea opere d’arte è un soddisfazione e un orgoglio ci fa capire quanto questo movimento sia cresciuto, quanto l’attaccamento alla tradizione e ai valori di una comunità sia risorto dopo i millenni bui di serie C. Ecco, questa cazzo di terza lettera dell’alfabeto, che riecheggia nelle nostre orecchie come un mantra malefico, come lo striscione di Ospitalmonacale “Forza avanti ragazìt, con la salama e con i caplìt, in C1 anden drìt”, appunto, vigliacca Odino, le divinità celtiche e pure quelle del monte Olimpo. Quella merdosissima terza serie, che mi fa suicidare un milione di ormoni, quei campi, quel pantano dove altre nobili decadute annaspano da anni come delle gabbianelle nel petrolio del Mare del Nord. Quel campionato in cui nessuno ti regala giustamente un cazzo, dove la forza, la grinta e il coraggio la fanno da padroni, dove l’ultima volta siamo rimasti ventitré anni con due fallimenti, svariate retrocessioni, in quarta e pure quinta serie. Ma avete presente quegli anni, in cui si sentiva il rumore del calcio nel cuoio del pallone? Chi c’era se lo ricorda, chi non c’era non può capire.

Anni in cui allo stadio non c’erano bambini, in cui il movimento rimaneva a galla grazie a indomiti e coraggiosi che seminavano nel nulla. Poi avvenne il miracolo dei Colombarini, stadio quasi pieno (senza la grada), bomber Varricchio che faceva venti gol, eleganza nelle movenze e fisico da urlo. Poi Semplici, Cellini, Mora, il Cobra, Giani e Tommy Silvestri. Poi Antenucci, Floccari, Schiattarella e Meret e ancora Semplici. E ancora la serie A e l’anno dopo Petagna. Ultima serie A, retrocessione brutta e un gol del boia al Milan da quaranta metri. Due anni di B, tribolati, ma che ci mantengono acceso il sogno della categoria. Poi arriva questo terzo campionato cadetto e si sbaglia tutto, ma proprio tutto. Secondo anno della nuova proprietà, si inizia smantellando le persone che la SPAL l’hanno nel cuore, ma davvero, non per sentito dire. Si cambia direttore sportivo e il suo staff, perché? Non si conferma il Filosofo, perché? Non si trova un posto in società per Sergio Floccari, che accetta l’invito alla festa della curva (non come altri), dopo essersi ritirato dal calcio giocato, per essere con noi, per ricordare un sogno impossibile, perché? Si conferma un allenatore in cui il presidente non credeva e dopo otto giornate lo si cambia, perché? Si decide di scommettere su un campione del mondo senza esperienza, ma che dà una grande visibilità. Non si fa il mercato di riparazione. Arriva un campione attempato amico del mister, due sconfitte e via segato pure lui, perché? Si prende un mister ben visto dal ds, due partite e si secca pure il direttore e lo staff, perché? Troppi interrogativi e nessuna risposta, altro che domande stupide. A me girano le palle viene voglia di fare il piccione che gioca a scacchi e quindi chiudo e rimango nella mia depressione.
Il presente e il futuro di questa SPAL sono Contiliano (orgoglio del Batiguàza) e Prati. Forza vecchio cuore biancazzurro.