foto Filippo Rubin
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Scendo con la macchina la discesa del ponte dell’Impero per andare alla punta con Mela e parcheggiare come faccio dalla notte dei tempi sotto la torre dell’orologio. Noto un po’ di smarrimento sulla rotatoria, via Darsena è bloccata pure in direzione della stazione. Chiedo lumi a una giovane rappresentante dell’Arma per sapere chi è lo scienziato che ha bloccato l’intero scibile umano per una partita. Ovviamente non mi sa rispondere e aggiunge che era libero il transito in direzione curva ospiti. Geniacci! Becco Mela e lo carico per cercare un parcheggio che mi immagino debba essere a distanza siderale dal tempio, ma il sindaco mi riporta a casa, parcheggiamo in via Compagnoni dietro al muretto del Total (ex), di modo che la passeggiata assume un sapore antico. Soliti passi ancestrali, saluti nel percorso e un mondo antico che riprende forma. Ogni sasso, caditoia, marciapiede ha un senso. La geriatria è già ben popolata al nostro arrivo, le campane ci accolgono all’ingresso, le beghine sgranano i rosai e la messa va a incominciare.

Ci chiediamo: ma quante partite da non sbagliare (in casa) abbiamo sbagliato? Forse tutte a mia memoria. Cioè qualcuno si ricorda di giornate da diecimila spettatori con gioia, trepidazione e orgoglio che siano andate bene? Io no. L’ingresso delle due squadre è accompagnato da uno sventolio di bandiere, canzoni e parole, mentre i ragazzi in grada alzano la loro coreografia. Mi vengono i brividi come sempre. Quanto vorrei esserci io in pantaloncini corti in campo a godermi lo spettacolo e a morire per la mia maglia. Ma non è detto che una volta o l’altra non mi capiti pure sugli spalti. Neanche un minuto e facciamo gol: è presto, maledettamente presto. Arbitro fischia la fine con 89 minuti di anticipo, tanto non se ne accorge nessuno. Detto, fatto. In un amen pareggiano, cross facile e colpo di testa dal dischetto, ce lo sbattono nel proselito. Bestemmio tutte le divinità dell’Olimpo, e no, non credo che andrò in paradiso, ma tanto lì non conosco nessuno. La S.P.A.L. gioca e la curva canta, il mio numero cinque pare un veterano, inarcato come Gibo dice la sua nel mezzo del campo. Moncini colpisce in torsione di testa che pare Van Basten, la palla crea una ipotenusa tesa e dritta, che sbatte contro la traversa, rimbalza perpendicolare al campo, si sporca sulla riga di porta ed esce. Spiegatemi voi, che siete forti nelle materie scientifiche, quale legge fisica può permettere tutto ciò? Come fa ad uscire una palla colpita con tale violenza e rimbalzare al contrario? Riprendo la litania e aggiungo alle divinità greche, pure quelle romane, che a un certo punto dietro di me un omone nudo, con la barba gocciolante e un tridente in manom mi dice di calmarmi. Credo fosse Poseidone.

Secondo tempo: ancora Maistro che raddoppia, lo stadio impazzisce, ci sembra di sognare. È capitato, siamo ancora avanti di uno. Poi altro giro, altra corsa e altro regalo: gira il volantino e prendi la codina. Pareggiano e non ho più divinità da prendere a male parole, controllo l’organigramma delle santità, ma niente, le già nominate tutte. Ecco, ora vorrei fare una cosa diversa dal solito, mi sono rotto di fare quelle chiusure strappa lacrime che poi magari portano pure sfiga. Vorrei darvi gli ingredienti per una torta, la torta alla “Spallinità”:
-Preparare un grosso e agglutinato impasto di sofferenza, non importa il peso basta che sia grosso;
-Aggiungere diverse uova di cappone;
-Latte di suocera in quantità rilevante;
-Sale, pepe, cicoria e cicuta in quantità industriale;
-Caffè salato;
-Grattare in grana grossa scaglie di sfiga nera;
-Mettere in forno ventilato (o anche no) a trecento gradi, per undici ore.

Ecco, una volta carbonizzato il tutto servire a chiunque soffra della nostra malattia, una torta bruciata e amara come la vita, che solo Socrate (il filosofo) saprebbe gradire. Noi siamo così, per una gioia dobbiamo scontare mille sfighe, ma non molliamo, non molliamo mai. Forza vecchio cuore biancazzurro.