foto Roberto Manderioli
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Dice: “Ma com’è che non scrivi più? Non avrai mica mollato?“. Ecco, mettiamo ben in chiaro le cose: io non ho mollata una beata coppola di Amanita Falloide come oramai ho detto svariate miriadi di volte. Semplicemente non sono un giornalista, magari lo fossi, non ho una professione collegata alla scrittura. Scrivo di S.P.A.L. perché mi viene, anzi, mi veniva facile. Racconto una passione che ho fin da bambino, fisso sulla tastiera le giornate passate su quei gradoni con gli amici fraterni di una vita. Ecco, questo facevo, ma ora quando nella mia mente appaiono solo bestemmie, improperi e insulti non credo sia per nulla utile che io li scriva, al massimo lo faccio nella fogna dei social. Dopo questa inutile pippa di premessa provo, ma non è per nulla scontato che io ci riesca, a mettere giù qualche pensiero sull’immane tragedia sportiva e non solo che si sta abbattendo sopra di noi. Cosa salvare della partita di venerdì? Dentro al campo, in panchina e in direzione assolutamente nulla, zero assoluto, encefalogramma piatto, siamo giù dall’albero come la “croda” marcia.

Ma qualcosa mi è rimasto, qualcosa di buono di venerdì lo ricordo, vado per punti:

1. Gli occhi delle mie figlie e dei loro amici ieri in curva prima della partita. Erano occhi brillanti di felicità, di qualcuno che riprende il testimone di una passione atavica, che mai morirà, cha fa parte della comunità in cui noi viviamo. Quegli occhi sono la mia speranza, brillavano ancora dopo la partita, a casa, volevano raccontarmi come avevano imparato i cori in un attimo, di come avevano gridato la loro e la nostra rabbia nei confronti dei nostri aguzzini, nei confronti di chi ci sta condannando all’oblio. Ma non c’era alcuna rassegnazione, anzi, c’erano orgoglio e appartenenza, c’erano fissati per sempre quei due colori, che ci fan morire, nel bene ma troppo spesso nel male.

2. Altri occhi sono l’emblema di ieri, quelli di un amico mio di rientro da un’iperbole durata troppo, da un’ingiustizia condannata senza processo. Quegli occhi lucidi a cui non importava di essere rientrato in uno dei momenti in assoluto più basso della nostra storia, né a lui e né agli altri fratelli accolti come si deve tra mille abbracci. A loro non importava nulla della partita, della pietà espressa in campo. No, a loro importava esserci, avere indossato metaforicamente o no la propria maglia, di avere ripreso posto nella propria esatta posizione, quella da sempre è un loro diritto, ma che loro vivono come un dovere. Il dovere di esserci, di tifare, di sostenere, di gridare la gioia di essere spallini, a discapito di tutto e tutti.

3. Ultimo punto, ma non ultimo, la curva Ovest. Semplicemente monumentale, tante voci, tante braccia, tanti cori, ripetuti all’infinito. No, noi non ci meritiamo una squadra e una società così. Una squadra e una società che non meritano una curva così. Nessun aggettivo migliore di “commovente” mi viene in mente per descrivere un agglomerato di anime come quello della curva Ovest. Della mia, della nostra curva.

Piccolo intermezzo pubblicitario: lo sapevi che nel 2024 Cristiano Mazzoni ha pubblicato una raccolta dei suoi scritti? Si chiama “Vista dalla curva: memorie di uno spallopatico, 2016-2019” e raccoglie una selezione, piena di fotografie, che abbraccia il triennio d’oro biancazzurro che oggi sembra assai lontano. Sergio Floccari ne ha scritto la prefazione e anche Luca Mora e Leonardo Semplici l’hanno particolarmente apprezzato. Lo si può ordinare online e ritirare, oppure riceverlo comodamente a casa.

Poi si potrebbe aggiungere qualche nota di colore, qualche appunto su ciò che si è visto in campo. Ho visto un ragazzotto dei nostri tirare di piatto o paletta, da trenta metri verso la porta. No, non un tiro a giro, proprio un appoggio di paletta. Il portiere l’ha parata mentre si accendeva una Marlboro strusciando lo Zippo sui pantaloncini. Ecco, a sto ragazzo negli Esordienti non gli hanno insegnato che per tirare forte in porta occorre calciare di collo, di pieno collo, e che il piattone se non stai calciando un rigore o non sei a tre metri dalla porta non serva per fare gol? Oppure quel ragazzotto che attende un pallone lento, che si vedeva dalla curva lo avrebbe scavalcato fermo immobile che lo costringe a fare un saltino a piedi uniti come un bimbo alla scuola calcio? Ma poveri ragazzi, non vi ricordate che il calcio è il vostro mestiere, ed è mille volte meglio che lavorare in fabbrica e pure più remunerativo? Della società, della squadra, dell’allenatore, sinceramente non ho voglia di parlarne, mi si abbrustolisce la bile, mi si gonfia il fegato come le povere oche durante le procedure per il foie gras. Una cosa vorrei dire però: il silenzio della politica, delle istituzioni, del governo della città stride e urla nel mare di una comunità che sta rischiando seriamente di perdere il calcio professionistico probabilmente per molto tempo. Questa mia critica non la sento da nessuna parte, come se il difendere il bene pubblico fosse un atteggiamento di parte. Forza vecchio cuore biancazzurro.

— Cristiano Mazzoni è nato nell’autunno caldo del 1969 a Ferrara, in borgata. Ha scritto qualche libro, ma non è scrittore, compone parole in colonna, ma non è poeta, collabora con alcune testate giornalistiche ma non è giornalista. Lavora come impiegato metalmeccanico e scrive di SPAL quando se la sente

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