a cura di Arnaldo Ninfali
Non so a voi, amici lettori, ma a me accade sempre più spesso di indugiare sui ricordi con una certa insistenza. Cosa volete, i tempi attuali non mettono allegria e il desiderio di fuga dal degrado generale si fa sempre più pressante. Non provate anche voi, ogni tanto, un urgente desiderio di partire, di andare lontano, in luoghi esotici, dove pace e serenità non siano solo una chimera? Io lo provo spesso questo desiderio, e cerco di soddisfarlo, in qualche modo, ritirandomi in solitudine e ripercorrendo con la memoria il sentiero che mi sono lasciato alle spalle. Mi succede allora di ritrovare antiche emozioni, sotto l’incalzare dei ricordi che affollano la mente, distolta per un po’ dalle consuete cure quotidiane. E l’atmosfera di un’altra epoca sembra d’improvviso riempire lo spazio intorno a me, coi suoi profumi, odori, suoni, che credevo dispersi per sempre ma che ora ritornano a rinverdire sogni e fantasie lontane.
Oggi ho un’età che mi consente di compiere balzi a ritroso di mezzo secolo e di ritrovarmi adolescente inquieto, a volte ribelle, ma pieno di speranze e gioia di vivere. E ricordo la nebbia di quelle rigide serate invernali, penetrata dai fanali delle nostre bighe lungo viale Belvedere, il cui silenzio era rotto dal ronzio delle dinamo piegate sulle ruote anteriori in movimento. E in alto la luce gialla dei lampioni che creava un baluginio sinistro, quasi spettrale. E poi, sul Montagnone, i colori e i profumi della primavera; e l’estate, che era davvero estate, con la sua testarda canicola e il rinfrescante ricorso a bif e granatine nei chioschi del viale della stazione. Nell’estate di cinquanta anni fa la parete del grattacielo rivolta verso viale Cavour era percorsa, dall’alto in basso, dai caratteri cubitali che componevano la scritta Fernet Branca, e noi eravamo orgogliosi di quel monumento al benessere economico, del quale anche Ferrara voleva beneficiare. Peccato che ormai il boom segnasse tristemente il passo e l’economia fosse già avviata verso una preoccupante stagnazione.
Ma noi ragazzi non lo sapevamo e pensavamo solo ad addobbare i garage dei nostri padri, pregandoli gentilmente di lasciare in strada l’auto, causa allestimento discoteca. E nei pomeriggi di sabato e domenica circolavamo per la città in giacca e cravatta, col mangiadischi sottobraccio e la valigetta dei quarantacinque giri a tracolla, esibendo con fierezza le nostre zazzere invise ai matusa, che ci guardavano con sospetto. Ma noi pensavamo solo al momento in cui, al primo lento sparato nel buio pesto del garage di turno, lei ci sarebbe stata, dando per scontato che lei ci fosse davvero, cioè che fosse fisicamente presente e suo padre non le avesse proibito di uscire. Coi padri, allora, non c’era da scherzare, e siccome capitava spesso che la pensassero tutti allo stesso modo, non era raro ritrovarsi in sette maschi a osservare tre femmine armeggiare attorno al mangiadischi, dimenandosi al ritmo della musica. Restavano un po’, prima di ritirarsi in buon ordine e lasciarci lì, col cerino acceso in mano, ad imprecare contro una rivoluzione sessuale che tardava a venire. Questa era l’atmosfera che si respirava a Ferrara mezzo secolo fa. La colonna sonora la misero i Beatles, col loro terzo album, dal titolo A Hard Day’s Night,uscito il 10 luglio 1964; ma anche Sanremo dava battaglia, con la Cinquetti, Bobby Solo e Paul Anka sugli scudi; mentre Morandi, a fine luglio avrebbe fatto il botto con In ginocchio da te.
Ebbene, in questo clima di spensierata gaiezza – così almeno lo percepivamo noi ragazzi – doveva consumarsi una tragedia che sconvolse la città intera. La SPAL, infatti, era patrimonio di tutti, anche delle donne e di chi guardava al calcio con una certa distrazione. Fu per noi un colpo durissimo la prima retrocessione dopo tredici anni ininterrotti di serie A. Eravamo troppo fieri dei nostri colori per accettare un simile affronto. Maledicemmo le cessioni di Gori e Dell’Omodarme e la spilorceria di Mazza, che aveva sempre bisogno di far cassa. Poi ce la prendemmo con gli assurdi errori tecnici e tattici, chiamando in causa l’allenatore e l’insensato utilizzo di molti giocatori (non sapevamo – o fingevamo di non sapere – che la formazione la faceva Mazza, sempre e solo lui) e, infine, chiamammo in causa la malasorte e gli arbitri, senza escludere la resa dei conti della Federcalcio con Mazza, responsabile della magra figura della Nazionale ai mondiali cileni di due anni prima.
A rendere poi ancora più cocente lo smacco contribuì lo scudetto del Bologna, strappato all’Inter sul terreno dell’Olimpico. Forse fu quell’anno che la rivalità tra le due tifoserie si trasformò in vero e proprio odio, come oggi traspare dalle nostre manifestazioni di giubilo per le recenti disgrazie rossoblù. Eppure, lasciatemelo dire, amici lettori, lo squadrone di Bernardini a quei tempi esprimeva un gran calcio e avrebbe meritato il plauso che si riserva ai campioni.Così fu serie B, e la tifoseria non la prese affatto bene. Le contestazioni a Mazza non si esaurirono tanto in fretta e lo scetticismo su un immediato ritorno nella massima serie influì negativamente sulla campagna abbonamenti. Ma quella volta noi tifosi avemmo torto marcio, perché la campagna acquisti di Paolo Mazza risultò un capolavoro di competenza e intelligenza calcistiche.
Aveva cominciato già alla fine del campionato, quando lo spettro della retrocessione sembrava potersi concretizzare, chiedendo a Sergio Cervato, ormai a fine carriera e in procinto di entrare nello staff tecnico della società, di recarsi a Catanzaro. Qui avrebbe incontrato Osvaldo Bagnoli per proporgli di trasferirsi a Ferrara. Il forte centrocampista lombardo, già Milan, Verona e Udinese, prima del Catanzaro, non si fece pregare e la stagione successiva risultò una delle pedine più importanti dello scacchiere bianco-azzurro. Disputò trentaquattro partite, segnando cinque reti e contribuendo al trionfale ritorno in serie A. Con lui si distinsero il bomber Muzzio, un immenso Oscar Massei, Gianfranco Bozzao e i giovani Pasetti e Capello, che allora davano i primi calci tra i professionisti. Il 1965 fu dunque l’anno del riscatto e del trionfo dei nostri idoli per le vie della città, gremite di folla festante. Ci sembrò, quel giorno, che nessun traguardo potesse essere precluso alla SPAL, compreso scudetto e trionfi europei. Già si pensava al nuovo stadio e, per noi, era come già esistesse, bello, maestoso e accogliente.
Ma il nostro sogno presto si infranse contro la dura realtà. Solo tre anni dopo, infatti, la SPAL non avrebbe ripetuto il miracolo e in due anni si sarebbe trovata in serie C. Qui aveva inizio una nuova storia, più grigia e anonima, e solo di tanto in tanto illuminata da qualche fiammata degna delle antiche glorie. E le speranze si alternarono a delusioni per traguardi sfuggiti d’un soffio o scandalose disavventure societarie che ci fecero conoscere persino l’onta della serie D. Ma di questa storia, amici lettori, non conosciamo ancora l’epilogo. Essa sta dipanandosi pian piano nel tempo, protesa verso un futuro percepito con un ottimismo che sembra giustificato. Si intravvedono segnali importanti, suffragati anche da argomenti cui la ragione sembra dar credito oltre ogni fondata critica. Per ora, non possiamo che affidarci alla fede e stringerci ai nostri colori per restituire loro la dignità di cui sono da sempre depositari.