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Consentitemi, cari lettori, di prendere spunto da un brano tratto dal  primo dei dieci racconti (La Vela) da me recentemente pubblicati per Apollo Edizioni. Vi sembrerà forse un trucco pro­mozionale, il mio, e …  forse lo è, ma l’obiettivo principale che mi propongo è condividere con voi alcune riflessioni che tale brano suggerisce già ad una prima lettura. Oggi non vi servirò il solito tuffo nel passato con l’intento di ispirare nostalgia agli anziani e curiosità ai giovani, ma la testimonianza di un diver­so modo di essere tifosi, meno conflittuale e più rispettoso dei principi di sportività. Se poi tale te­stimonianza sarà in grado o meno di richiamare a più miti consigli chi confonde l’amore per la SPAL con l’odio per tutto ciò che non è SPAL, questo non lo so: io comunque ci provo e aggiungo, qui di se­guito, il brano annunciato.

“[…] Era piacevole vivere a Ferrara in quegli anni [ … ]: e l’anno de La Vela lo fu particolarmente, nonostante l’onta della bocciatura. Il difficile rapporto con mia madre era compensato dalle emozioni per le imprese della Spal. Tutta la città assisteva ammirata e incredula alle vittorie bianco-azzurre, che non risparmiavano neppure gli squadroni. Nei bar non si parlava d’altro e persino le donne diventavano tifose. Nel  gennaio del 1960 erano co­minciate le trasmissioni di Tutto il calcio minuto per minuto ed era raro che la partita della SPAL, squadra di alta classifica, non fosse tra i cinque campi principali. Il Comunale era sempre gremito e a bordo campo si poteva scorgere il grande Nicolò Carosio che registrava la telecronaca della partita. Alla fine fummo quinti, piazzamento che per noi valeva lo scudetto. Eppure, anche se tante furono le vittorie della SPAL di quell’anno, io non dimenticherò mai una sconfitta, quella contro la Juventus dominatrice del campionato. Era il 21 febbraio 1960 quando i bianconeri ci rifilarono un sonoro tre a sei, con Charles e Sivori scatenati. Eravamo ventimila, quel giorno, sugli spalti del Comunale, pigiati come sardine. La gradinata era di legno e le assi che la componevano nere come le traversine della ferrovia. Vi si sostava rigorosamente in piedi, ma quel gior­no la partita fu di tale intensità che il disagio non venne affatto percepito. Quella interminabile sequenza di reti mitigò persino l’amarezza della sconfitta perché, siamo sinceri, di fronte alla classe di Sivori, Charles e Boniperti non si poteva che ammutolire e poi correre a vederli uscire dallo stadio per vivere su una nuvola l’intera settimana successiva. Gli autografi che rimediai quel giorno avranno forse subito le ire di mia madre dopo qualche deludente colloquio scolastico: peccato! Avrebbero potuto far compagnia a La vela, magari come segnalibro. […]” (da Arnal­do Ninfali, La vela e altri raccanti, Apollo edizioni, CS, 2014, pp. 21-22).

Pensate un po’, cari lettori, che cosa curiosa: quell’anno, al Comunale, vincemmo più o meno nettamente contro sette delle nostre avversarie, eppure a me rimase impressa soprattutto una sconfitta. Ma come sarà stato possibile – vi chiederete – un così sconcertante fenomeno? Lo so che oggi una sconfitta è un’onta insopportabile che può accendere odio eterno per chi te l’ha rifilata, ma allora non era così. Allora si amava davvero il calcio e i fuoriclasse che lo interpretavano erano prima di tutto fuoriclasse e poi avversari. Potevano indossare la maglia che si voleva, li si poteva maledire dopo che ti avevano segnato contro, ma alla fine si correva a vederli uscire dagli spogliatoi e ci si accapigliava per rimediare un autografo da conservare come una reliquia.

Per un giovinetto sognatore qual io ero allora, trovarsi a un paio di metri da Omar Sivori, Charles, Boniperti, Cervato, Nicolé e gli altri campioni bianconeri, fu una tale emozione che la sconfitta non bruciò più di tanto. Certo, la vittoria sarebbe stata bella – avevo imprecato ad ogni rete subita -, ma sapevamo che piedi avevano i nostri avversari, e che zucca aveva John Charles. Il gallese segnò una tripletta, Sivori una doppietta. Inoltre, l’argentino servì a Leoncini l’assist del sesto gol, dopo aver mostrato al nostro Dante Micheli, che lo marcava da vicino, una magia che lo lo mandò in bambola per un’ora. Ecco, io credo che a fine partita, la sensazione di aver assistito a una sublime dimostrazione di vero calcio, alla quale – per altro – anche i nostri avevano contribuito con due gol di Rossi e uno di Massei nel finale, abbia prevalso sull’amarezza della sconfitta.

Era piacevole vivere a Ferrara a quel tempo: ci si sentiva sicuri, liberi, non minacciati dai mille pericoli di oggi. E la partita domenicale assomigliava più a una festa che a una guerra. I tifosi avversari, sugli spalti, si mescolavano a noi, rendendo inutile quel massiccio dispiegamento di polizia che oggi ce li tiene a distanza. Gli ultras erano ancora di là da venire e nel pre-partita ci si poteva aggirare nei pressi dello stadio anche coi bambini, senza il pericolo di esporli a eccessivi traumi psicologici. Era tutto un brulichio di gente e uno sventolar di bandiere, mentre quella sagoma di Pendenza teneva banco sprizzando bianco-azzurro da tutti i pori e sostenendo sempre che quel giorno non si poteva che vincere. E la partita era il clou di una giornata che sarebbe stata indimenticabile a prescindere dal risultato che sarebbe maturato sul  campo.

Si dice spesso che la riesumazione del passato non serve tanto per rimpiangerlo a oltranza, quanto per scoprire tra le sue pieghe ciò che di positivo è andato perduto nella implacabile corsa verso la modernità. Ecco, forse quel clima di serenità, concordia e sano campanilismo sportivo si potrebbe tentare di recuperarlo. Non vi pare?