Il 28 febbraio del 1965 era domenica. Mi ricordo bene quel giorno, perché in chiesa non partecipai alla Santa Messa con la consueta devozione, commettendo un peccato sul quale Dio, primo tifoso della SPAL, forse avrebbe chiuso un occhio anche a prescindere dalla successiva confessione. A quei tempi, infatti, la nostra prolungata permanenza ai vertici del calcio nazionale sapeva di miracolo e dedurre che avevamo dalla nostra il Padreterno non era affatto risibile. Oggi verrebbe da dire che, con un tifoso così potente, qualche aiutino potrebbe anche giungerci dall’alto dei cieli. Ma Dio, come è noto, è giustizia infinita e favoritismi o imbrogli non ne fa. E poi ama il calcio più di noi, e si dice che ogni tanto rinunci a un paio d’ore di onniscienza per non guardarsi sempre le partite in differita. Il suo motto è: “Vinca il migliore, ma che sia la SPAL e che l’arbitro, in fatto di giustizia abbia imparato qualcosa dal sottoscritto”. Pensare quindi che sia proprio Lui a determinare il risultato finale di una partita di calcio è del tutto fuori luogo.
Al massimo può fare come quel 28 febbraio, quando ebbe un occhio di riguardo per due pecorelle venute a trovarlo nella chiesa di San Benedetto a Ferrara. Non erano tra quelle smarrite, ma il fatto che si chiamassero Edy Reja e Fabio Capello giustificava la particolare attenzione che riservò loro (almeno questa fu l’impressione che io ebbi quel giorno). Nessuna delle molte altre pecorelle che affollavano la sua casa sembrò adombrarsene, perché quel colloquio privato tra Nostro Signore e quei due bravi ragazzi, avrebbe potuto quel giorno far felice l’intera città. Di lì a qualche ora, infatti, il Napoli si sarebbe presentato sul terreno del Comunale con intenzioni tutt’altro che pacifiche, e l’interessamento divino era l’ideale per fare abbassare la cresta agli scugnizzi di San Gennaro.
I miei amici ed io entrammo in chiesa a Messa appena iniziata e li riconoscemmo subito. Ci davano le spalle qualche metro più avanti, in piedi, tra la folla che non aveva trovato posto nei banchi. Ci piazzammo dietro di loro e ne godemmo la vicinanza per l’intera durata del rito. Vestivano il tradizionale completo spezzato della SPAL, che portava sulla giacca, all’altezza del cuore, lo storico ovetto. Le mani congiunte dietro la schiena nella classica posizione del riposo militare, seguivano la funzione con una compostezza che mi sembrò eccessiva in ragazzi che avevano solo un paio d’anni più di noi. Mi convinsi che ci fosse davvero un abisso tra noi svagati perdigiorno annoiati da scuola e genitori, e loro, uomini liberi e responsabili, sicuri di ciò che avrebbero fatto da grandi. Confesso che fui colto da una leggera invidia che mi sfuggì nella confessione di cui sopra. Non mi consolò il fatto che anche Capello frequentava le superiori, senza esserne troppo annoiato, e facendo con diligenza il proprio dovere. Quanto ai genitori, poi, a farne le veci ci pensava Mazza e, come direbbe il partenopeo Peppino, “ho detto tutto”. Era uno, il Comenda, che alle dieci di sera li voleva tutti a letto e li controllava con un’assiduità maniacale: non c’era mica tanto da scherzare!
Pensieri di tal genere mi frullarono colpevolmente per la testa quella domenica, durante tutta la funzione religiosa. E quando si arrivò all’ite missa est che ordinava di andare in pace, io rimasi ancora un po’ in adorazione. Poi ammirai come si genuflettevano e segnavano, e scorsi nei loro volti una serenità che mi parve di buon auspicio per un pomeriggio trionfale. Uscii di chiesa convinto che quel giorno San Giorgio avrebbe dato un dispiacere a San Gennaro. Invece fu solo pareggio, uno zero a zero che pensai fosse dipeso dal fatto che Capello e Reja quel giorno non giocarono. Ne fui contrariato e me la presi con le astruserie tattiche di Mazza, il quale, in quel periodo, arrivava persino di schierare Bozzao a centrocampo: robe da matti! Il bello è che, comunque, con robe da matti come quelle, di lì a qualche mese ci saremmo trovati in serie A, assieme al Napoli e al Brescia. E San Giorgio e San Gennaro avrebbero fatto baldoria, assieme a San Faustino e San Giovita, i quali, per chi non lo sapesse, sono i patroni della città delle rondinelle.