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Ha disputato con la SPAL solo una stagione e mezza, il tempo sufficiente per innamorarsi di una giovane ferrarese con la quale oggi è felicemente sposato, e conquistarsi l’affetto della tifoseria biancazzurra. Da quattordici anni è la bandiera del Chievo Verona e capitano da dieci. Lui è Sergio Pellissier, col quale ho avuto una piacevole conversazione all’esterno del ristorante che la moglie dirige in corso Porta Nuova.

Non sono venuto solo, ma con due preziosi volumi sulla storia della SPAL che documentano anche della sua militanza in maglia biancazzurra: Spallinati, Ars et Labor, La Carmelina edizioni, 2009 e Fontanelli-Negri, Il calcio a Ferrara,  GEO edizioni, 2009. A pagina 344 di quest’ultimo c’è lui, assieme ai compagni della stagione 2000-2001. Gli mostro la foto e subito si illumina nel riconoscere, uno ad uno,  i suoi compagni di un tempo.

Ma guarda! – esordisce – Con Cancellato ci siamo visti solo giovedì scorso: è venuto a pranzo qui da noi. Con lui ci vediamo spesso. Ma anche Longhi lo vedo ogni tanto.

Che ricordi hai, Sergio, del tuo anno e mezzo trascorso in biancazzurro? Trovasti una SPAL messa non troppo bene, poi, arrivato tu, le cose si misero meglio.
Sì, in effetti in poco tempo ci tirammo su bene. Poi purtroppo mi feci male e stetti fuori un paio di mesi. Sino ad allora eravamo quinti e fisicamente tutti in forma. Poi mi capitò quello strappo, in casa contro il Lumezzane. Credo sia stato l’unico di tutta la carriera“.

E che ambiente trovasti alla SPAL?
L’ambiente spallino è molto particolare. I tifosi sono tutti attaccatissimi alla maglia e se le cose vanno bene, lo stadio è sempre pieno, mentre se vanno meno bene, cominciano a non venire più. Vengono solo gli affezionati e lo stadio si svuota parecchio. E quando sei in difficoltà, non avere nessun supporter dietro che ti sostenga è brutto. Però direi che c’è sempre rispetto verso la squadra e verso le tue occupazioni extracalcistiche“.

Quindi, nel complesso, hai un buon ricordo di quel periodo.
Assolutamente! Ho passato un anno e mezzo fantastico e, nonostante abbiamo avuto molti alti e bassi, io mi sono trovato molto bene a Ferrara, dove poi ho conosciuto mia moglie…“.

Davvero un regalo importante ti ha fatto Ferrara…
Certo. Per questo sono rimasto legatissimo a questa città. I miei figli, se non altro, sono per metà di origine ferrarese“.

Tornando a questioni calcistiche: da cosa dipendeva, secondo te, il procedere altalenante di quella squadra?
Non lo so da cosa dipendesse. Il primo anno, quando sono arrivato, eravamo messi male e l’imperativo categorico era salvarsi. Ce l’abbiamo fatta abbastanza bene, nonostante il mio infortunio. L’anno successivo, invece, eravamo partiti per vincere e, quando hai questo obiettivo, tutti si aspettano grandi cose e noi invece avevamo alti e bassi. Quale la causa? Mah, non puoi sapere cosa si dovesse cambiare per ottenere risultati diversi. Indubbiamente, partire per vincere non è come avere l’obiettivo salvezza“.

Osvaldo Bagnoli un giorno mi disse che per lui è importantissimo, in una squadra, l’uomo spogliatoio, quello che ha carisma, autorevolezza, doti di coesione del gruppo. Secondo te, in quei due anni, c’era nella SPAL questa importante figura?
Noi avevamo tanti giocatori di una certa età che avevano esperienza; penso ad Airoldi, Cancellato, Andreotti, Pierobon, Rosa, tutti ragazzi seri e senz’altro capaci di svolgere quel ruolo. Solo che, a volte, anche se hai una squadra di una certa caratura, non si riesce a vincere. Uomini squadra ce n’erano ma, purtroppo, l’esito fu inferiore alle aspettative“.

Immagino che, nel Chievo, essendo capitano da tanti anni, sia tu a svolgere questa funzione. E’ difficile, secondo te, mantenere unito il gruppo?
Avendo una certa esperienza, mi sono abituato a più cose, anche a fare da guida ai giovani e la loro difficoltà oggi consiste nel non rendersi conto dell’importanza della salvezza, degli obiettivi. Io, col Chievo, ho vissuto una retrocessione e posso dire che è una cosa vergognosa, almeno per uno del mio carattere. Senti proprio la pressione della retrocessione e, per questo, devi avere persone che ti insegnano come mantenere la calma nei momenti di difficoltà, ma anche a non esaltarti troppo quando le cose vanno bene. Bisogna avere sempre un equilibrio nelle cose. Ad esempio, la fortuna del Chievo di quest’anno è che avevamo tanti uomini d’esperienza: eravamo la squadra più vecchia d’Europa e la seconda nel mondo. E quando calchi i terreni di gioco da tanti anni, hai sperimentato diverse situazioni e sei in grado di prendere le necessarie contromisure a quelle che devi affrontare nell’immediato futuro“.

Grande campionato avete fatto quest’anno, davvero…
Ma di questo va dato merito sia a quelli che scendevano in campo, sia a quelli che andavano in panchina. Si sono sempre allenati con impegno, non si sono mai lamentati. In questo modo hanno dato una grossa mano e hanno tenuto unito il gruppo. Questo atteggiamento è molto importante per i più giovani“.

Fosti alla SPAL nelle ultime due stagioni a conduzione Donigaglia. Tu che ricordi hai di lui?
Donigaglia era abbastanza criticato dai tifosi. Però devo dire che io con lui mi sono trovato molto bene. A parte che aveva una grande passione per il calcio e per la SPAL, e per la società aveva investito tanti soldi. Ma anche per la città di Ferrara faceva tante cose, malgrado fosse di Argenta. E’ vero che, come imprenditore, aveva anche interessi economici, però ci teneva tanto alla squadra e cercava di seguirla con assiduità. Quanto a me, mi aveva preso in simpatia e con lui avevo un buonissimo rapporto. Devo dire che, come presidente, assomiglia molto a Campedelli, sempre pronto a far fronte alle necessità della squadra, è uno che ci tiene particolarmente. Ne conserverò un buonissimo ricordo“.

E di Ferrara, della gente, dei luoghi?
Sono stato a Ferrara che ero ancora giovane e l’ho vissuta nel modo migliore. Approfittavo della bella stagione di aprile e maggio per andare al mare. E’ una città dove si vive in tranquillità e ci si conosce praticamente tra tutti. Da contratto, dovevo andare a mangiare alla Brasserie, di fronte allo stadio, e lì ho conosciuto mia moglie. Lì poi si concentrarono tutte le mie conoscenze, per cui in quel luogo mi sentivo come a casa“.

Mi hai detto al telefono che ogni tanto leggi LoSpallino.com: allora un po’ di curiosità per le vicende biancoazzurre le coltivi ancora.
Certo. Tanto più che mio suocero è spallino e mi ha sempre tenuto informato sulle vittorie che l’hanno portata in Serie B. Mi piace seguire le squadre in cui ho giocato“.

Come hai vissuto la recente promozione in B dei biancazzurri?
Ah, è stato bellissimo. Mi sarebbe piaciuto poter essere alla festa. Ho avuto degli amici che mi hanno mandato il video dei festeggiamenti. Deve essere stato fantastico“.

Quando eri a Ferrara avevi poco più di vent’anni. Ritieni che sia stato utile, per la tua carriera, questo iniziale rodaggio tra i professionisti?
Io ho fatto i primi sei mesi al Chievo, dove sono cresciuto e ho visto giocatori importanti da cui ho appreso tante cose. Ricordo Corradi, Cossato e tanti altri. Io stavo bene, solo che il mister, puntando alla promozione, non si è affidato a me, perché c’erano tanti attaccanti bravi. Così a gennaio sono venuto alla SPAL in una forma fisica incredibile. Mi ricordo che come direttore sportivo c’era Botteghi, che mi aveva dato fiducia, e, come mister, Melotti, col quale sono ancora in contatto. Da lui ho avuto carta bianca: potevo fare ciò che volevo. E per me, quando mi si dà fiducia, è un punto d’onore ricambiarla ad ogni costo“.

Quindi tu, venendo alla SPAL, pur subendo il declassamento dalla B alla C, hai considerato il beneficio di giocare da titolare.
Io, con Melotti, ho provato soprattutto l’importanza di sentirmi importante. Se l’allenatore ti dimostra fiducia, se appena può ti mette in campo si affida a te per certe cose o ti chiede consigli, vuol dire che crede in te e ti fa sentire importante. E quando ti fa giocare, il primo obiettivo è non deluderlo. Poi si può anche sbagliare, ma bisogna sempre cercare di dare il massimo“.

Allora mi pare sia stato un apprendistato importante il periodo alla SPAL.
Sì, però io non l’ho vissuto come un declassamento. Avevo fatto l’esordio in B col Torino, poi non avevo più giocato. Ciò vuol dire che, evidentemente, la mia categoria era la C. In serie B mi ero sentito come in prova, perché ero giovane“.

Ora ti chiedo: secondo te, quali differenze ci sono tra le tre categorie e come ci si deve attrezzare per affrontarle al meglio?
Ognuno ha il suo modo di vedere e interpretare il calcio. La B, per esempio, è un torneo lunghissimo e non è detto che la squadra che sulla carta parte con la rosa più accreditata, riesca poi a vincere o a salvarsi. In poco tempo si può passare dal vertice della classifica ai bassifondi. Guarda il Livorno: quest’anno è retrocesso dopo essersi trovato tra le prime alla fine del girone d’andata. Quindi la validità dei giocatori non basta. Ci vuole anche un ambiente tranquillo. Non pensare di doversi salvare a tutti i costi, o puntare in alto. Bisogna fare un passettino alla volta e fare più punti possibile“.

Tutto ciò che dici immagino tu l’abbia sperimentato proprio nell’anno dell’ultima serie B del Chievo.
Quell’anno lì la società decise di tenere quasi tutta la rosa che aveva disputato la A. C’erano giocatori d’esperienza e di categoria superiore. Fu lì che diventai capitano, con tutta la responsabilità che comporta. E’ chiaro che andavamo in campo per vincere, però nessuno ci trasmetteva l’ossessione della vittoria a tutti i costi “.

Dopo la retrocessione, vi deste l’obiettivo di ritornare subito in A fin dall’inizio del campionato? 
L’intenzione era di tornare su subito. Poi dovette trovare un allenatore adatto alla B. Noi avevamo Iachini, che ci portò alla vittoria e, guarda caso, in A poi fu esonerato“.

Ma un calciatore come vive l’esonero di un allenatore?
Io posso dire come lo vivo io. Quando sei il capitano della squadra, uno di quelli inamovibili, giocatore simbolo, lo consideri un fallimento. E’ una cosa davvero brutta. Perché senti che la colpa di quel fallimento è anche tua, che vai in campo. Sai che non esonerano te perché non possono, ma ti senti tu stesso esonerato“.

Però, a volte, cambiando allenatore, si imprime una svolta che ti porta al successo. Alla SPAL, da quando Semplici ha sostituito Brevi, è cominciata una risalita che l’ha portata in B.
Può senz’altro capitare che il cambio allenatore sia la cosa giusta da fare. Se hai la fortuna di trovare la persona giusta per quel contesto e per i giocatori che hai, avrai successo“.

In un’intervista recente in hai parlato della tua scelta di restare al Chievo nonostante le allettanti offerte ricevute nel tempo. Così adesso ti chiedo, a conclusione della nostra chiacchierata: cosa ti ha spinto a un comportamento così diverso da tanti tuoi colleghi che fanno i nomadi per il mondo rispondendo a chi offre di più?
Ognuno sa cosa può dare. Io so che, per dare, ho bisogno di qualcuno che mi responsabilizzi, che mi faccia sentire importante, come ho detto prima. Qui al Chievo, nel presidente Campedelli e nel DS Sartori, ho trovato le persone che hanno soddisfatto in pieno queste mie esigenze. Se io fossi corso dietro a grossi guadagni non so se adesso, a trentasette anni, avrei ancora un posto di lavoro. E poi l’aspetto affettivo per me è importante: io sono affezionato a questa società. Sarebbe stato così anche se fossi rimasto alla SPAL. Se questa fosse stata in serie A, sarei rimasto a Ferrara. Pensa che io, dopo il primo anno, non ho voluto tornare al Chievo. E sono stato io a chiedere di restare alla SPAL, perché in quella prima annata, complice anche l’infortunio, non ero riuscito a dare quello che avrei voluto. Avevo un rammarico dentro del quale mi volevo liberare, e così feci in modo di rimanere anche il secondo anno. Da quando poi sono tornato al Chievo, il presidente non ha mai voluto cedermi. Ha rifiutato persino offerte da otto milioni di euro. Napoli e Inter si fecero avanti a più riprese, ma lui da quell’orecchio lì non ci sentiva. A volte non parlava neanche di soldi con le altre società, perché non gli interessava. Tu capisci che, di fronte a tali dimostrazioni di stima, io non posso che cercare di meritarla sempre più e pensare solo al bene del Chievo“.

Un’altra cosa mi ha impressionato di quell’intervista: tu dicesti di sentirti appagato dall’unica presenza in nazionale che ti fu concessa, di non avere nessun rammarico per avere segnato un gol e non essere stato più chiamato. Veramente una cosa che mi ha destato non poca ammirazione nei tuoi riguardi.
Guarda, io sono cresciuto negli anni ruggenti della nazionale. Negli anni Ottanta e Novanta era forte, aveva dei veri fuoriclasse. L’Italia era ancora fra le prime cinque del mondo, il nostro campionato era ancora il migliore del mondo. Per me, fin da piccolo, la nazionale è stata il mio sogno. Solo i migliori possono approdare alla nazionale. Adesso invece ha aperto le porte a tutti. Bastano tre quattro partite indovinate che sei subito convocato: secondo me non è giusto. Io, per andare in nazionale, quell’anno, avevo credenziali di oltre settanta gol in serie A e non ero uno sconosciuto. Quindi quella mia comparsa in nazionale è stata il riconoscimento del valore che mi ero guadagnato in anni di gol in serie A, non una fiammata destinata a durare un attimo. E siccome riconoscevo che in quel periodo c’erano giocatori molto più forti di me, mi sono sentito appagato da quel traguardo raggiunto“.

A questo punto Sergio ed io ci accomiatiamo promettendoci un’altra piacevole chiacchierata. E mentre mi allontano penso che nell’odierno mondo del calcio un vero fuoriclasse c’è sicuramente. Grazie, Sergio Pellissier.