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Con la quarta ed ultima puntata si conclude la lunga chiacchierata di Arnaldo Ninfali con Oscar Massei. Le prime tre parti del loro incontro sono disponibili online nel nostro archivio:

*1* Incontro con Oscar Massei, parte prima: SPAL, non avere timore, te la puoi giocare con tutti
*2* Aspettando Massei… si prosegue sul viale dei ricordi: Paolo Mazza e quel quinto posto in A
*3* Incontro con Oscar Massei, parte terza: Io, Mazza, la Nazionale e quei tira e molla sul contratto

Durante il pranzo è tutto un emergere di ricordi che richiamano altri ricordi, e Ferrara sembra tornare com’era, o come entrambi l’abbiamo vissuta: il negozio che ora non c’è più e quelli che non c’erano ancora; le vie di periferia che finivano nei prati; l’arrotino, il seggiolaio e il ghiacciaiolo che gridavano i loro striduli richiami; le donne, che ancora non pensavano al lavoro fuori casa; la televisione, che non era invadente come oggi; la SPAL, che restava sempre in serie A, con la sua bella maglia azzurra dalle maniche bianche, che poi sarebbe diventata a strisce verticali. Alla fine, come si vede, si approda di nuovo alla SPAL e a quel glorioso passato di cui il mio gentile ospite fu l’interprete più acclamato.

“Io personalmente devo ringraziare la SPAL – afferma il Capitano – perché mi ha dato l’opportunità di giocare al calcio nove anni. E poi a Ferrara sono stato benissimo”.

La gente stravedeva per lei e ancora oggi le vuole bene, tanto che nel 2007 l’ha insignita della cittadinanza onoraria.
“Siamo in tre ad avere la cittadinanza onoraria: io, Arnoldo Foà e Michelangelo Antonioni. Questo riconoscimento, devo dire, mi ha molto commosso e quando il sindaco Sateriale quel giorno ha elencato i meriti che me lo hanno fatto guadagnare, sono andato un po’ in confusione, tanto che, prendendo la parola, ho peccato un po’ di immodestia dicendo: ‘Signor Sindaco, Lei ha parlato bene!'”.

Se ripenso a cosa mi hanno detto i suoi ex compagni che ho interpellato, credo proprio che quegli elogi se li sia meritati, perché tutti avevano una grande stima di lei.
“Tra noi eravamo molto amici. Tanto che sono stato testimone di nozze di molti, o padrino di molti loro figli. Ancora adesso ci sentiamo. Un mese e mezzo fa, appena arrivato dall’Argentina, ho fatto un giro di telefonate, così, tanto per dire che sono vivo: a Bagnoli, Dell’Omodarme, Bozzao, Pasetti, Tomasin; alla moglie di Novelli, perché Carlo purtroppo non c’è più; a Crippa. Si ricorda Crippa?”.

Certo! Dante Crippa, ala sinistra che giocava coi calzettoni a mezza gamba.
“Veniva dalla Juventus e faceva il doppio passo…”.

Che spettacolo era! Andavamo in delirio quando faceva quella finta lì.
“Ho saputo, purtroppo, di Edo Patregnani, che ci ha lasciati anche lui. Eh, ce ne andiamo, uno dopo l’altro e anch’io devo stare attento perché prima o poi… ma così è la vita: cosa possiamo farci? In essa c’è anche la morte e la dobbiamo accettare”.

A questo punto esito qualche secondo, indeciso se dirglielo o no, ma forse già lo sa e la notizia non sarà così traumatica.

Ha saputo di Ranzani?
“Noooo, anche lui? – replica con costernazione. – Giocava con noi ed era un bravo ragazzo, più giovane di me, persona perbene, sempre corretta con tutti. Mi dispiace, davvero. Ha saputo mettersi in luce anche dopo aver smesso di giocare, dimostrando delle ottime qualità manageriali e diventando anche presidente della SPAL. Che perdita è stata! Ho saputo anche di Ennio Guirrini, il massaggiatore, figlio di Guido, il custode. Anche lui lo ricordo con affetto e mi è dispiaciuto molto”.

La tristezza a questo punto si impadronisce di noi e parlare di calcio e della gioia di vivere che esprime sembra quasi fuori luogo. Ma è Massei che ha più forza e per primo si riscuote, tornando a sorridere alla vita.

“E così lei scrive per Lo Spallino.com, dove ci sono alcuni di quei simpatici giovanotti che ho avuto il piacere di conoscere tempo addietro. Sono bravi ragazzi, sa? Che lavorano con passione e amano davvero la SPAL. Appena verrò a Ferrara mi farà piacere salutarli”.

Concordo con lei. Per me collaborare con loro mi fa sentire più giovane.
“Allora, visto che lei conosce la SPAL da vicino, le faccio io una domanda, se mi permette: cosa pensa della squadra di oggi? Dato che lei l’ha vista l’anno scorso e io no, come ritiene che si sia organizzata per la serie B?”.

Vede, io non sono un tecnico. A volte mi capita di azzeccare qualche previsione, come risulta da un articolo che scrissi un po’ di tempo fa, ma poi mi godo il bel gioco ed esulto quando la SPAL vince.
“Se lei invece chiede a me com’è una squadra, io vado a vedere come gioca e poi le dico dove può o non può arrivare. Soprattutto osservo gli attaccanti, per rendermi conto di che potenzialità realizzativa siano dotati. Stia a sentire: lei, per vincere un campionato, ha bisogno di sessanta gol. Allora mi chiedo: in quella squadra ci sono due bomber che possano realizzare trenta gol a testa? Un bravo DS deve rispondere a questa domanda quando costruisce la squadra. E deve agire di conseguenza, cioè comprando degli attaccanti con alte potenzialità di reti. Di conseguenza, il budget di cui dispone deve usarlo soprattutto per comprare i giocatori più che per pagare gli allenatori. Guardi il Barcellona: Suarez e Messi assieme fanno sessanta gol a stagione, più quei pochi che ogni altro giocatore può segnare, e il campionato è vinto”.

Oltre all’alta potenzialità realizzativa degli attaccanti, quali altre doti deve avere una squadra per essere vincente?
“Bisogna che tutti quanti cooperino per mettere i due bomber nelle migliori condizioni di andare in gol. Questa, secondo me, è la fisionomia di squadra a cui dovrebbe tendere un DS, assieme all’allenatore, naturalmente. Se poi si verifica che in squadra ci sono altre pedine con la propensione al gol, allora i due bomber possono anche essere meno prolifici. Ma l’obiettivo iniziale deve tendere a trovare due attaccanti che assieme facciano sessanta gol”.

Comunque, relativamente alla SPAL, l’anno è ritenuto interlocutorio e si punta soprattutto a mantenere la categoria.
“E’ giusto. Se si disponesse di tanto denaro, come i grandi club, non ci sarebbero problemi: compri i fuoriclasse e sei a posto. Ma una società come la SPAL deve continuare con la filosofia di Mazza, il quale diceva che per fare il brodo poteva anche non servire la gallina, ma bastare certi scarti che usano i poveri. Ciò che è importante è disporre di osservatori bravi che sappiano riconoscere il talento anche in quei giocatori che non sono ancora del tutto esplosi”.

E per avere dei giocatori di quel tipo, una società come la SPAL dove dovrebbe orientarsi?
“Mah! L’importante è che trovi un Massei – risponde in tono divertito. No, a parte gli scherzi, l’uomo squadra dalle qualità al di sopra della media ci vuole, e poi dei buoni giocatori adatti ai vari ruoli”.

Secondo lei oggi dei giocatori così si trovano di più in Italia o all’estero?
“All’estero, senz’altro. Sono curioso di vedere la SPAL contro una pari categoria e, quando l’avrò vista, potrò dire a quali traguardi può aspirare”.

Comunque, dopo Cagliari sono stati acquistati due giocatori che dovrebbero fare la differenza: un difensore giovane, molto alto, che si chiama Vicari, e un centrocampista di categoria che può diventare proprio l’uomo squadra che dice lei, ossia Schiattarella.
“Bene. Se il DS ha fiuto e sa riconoscere le qualità, questi acquisti possono risultare determinanti. Bisogna tener presente che il campionato di B è molto difficile, che rispetto alla Lega Pro c’è una differenza enorme, tanto che a volte bisogna chiedersi persino se lo stesso allenatore artefice della promozione sia adatto alla serie B”.

E puntare sul vivaio cosa ne pensa?
“C’è un impianto in via Copparo che era bello già ai miei tempi e ci si lavorava molto bene. Immagino cosa diventerà quando la ristrutturazione sarà completata. Allora ci vorranno degli esperti in grado di scoprire il talento già nei bambini, in modo di investire a colpo sicuro in quelli che diventeranno dei campioni. Il Paso, Pasetti, è uno in gamba e, come allenatore dei ragazzi, ce ne sono pochi come lui”.

E’ stato ingaggiato dal Bologna, lo sa?
“Ah sì? Lui ha sempre voluto restare vicino a casa, a Francolino, dove è nato. E’ venuto via dal Milan proprio per questo. Bologna è più vicina e la sera potrà tornare a casa. Comunque è un grande il Paso, come uomo e come professionista”.

Come allenatore delle giovanili, lei quanti anni rimase alla SPAL?
“Due anni. In quel periodo lì si mise in luce Matteo Ferrari e poi, che ricordi io, nessun altro. Mi ricordo che i dirigenti, allenavo la Berretti, ci chiedevano di esprimere un parere su questo o quel giovane per sapere se potevano sborsare grosse cifre per riscattarlo, ma era difficile trovare qualcuno per cui mettere la mano sul fuoco”.

E’ vero che il Barcellona si cura anche della crescita culturale dei ragazzi?
“Certo. Li fanno studiare e chi a scuola non prende bei voti viene mandato a casa. Ma anche il Milan e l’Inter fanno così e vedrà che la SPAL, quando avrà il suo bel Centro in funzione, seguirà lo stesso esempio. Nel calcio bisogna curare la crescita umana assieme a quella atletica”.

Secondo lei, sul piano umano, in cosa è cambiato il calciatore dai suoi tempi ad oggi?
“Come tutti, anche il calciatore si è fatto influenzare dalla televisione e dal bisogno di crearsi un’immagine secondo le mode del momento. E siccome oggi girano più soldi, il calciatore ha delle potenzialità consumistiche che una volta non aveva. Così cura la propria immagine con molta più attenzione di quanto facessimo noi. E poi senta una cosa: ma lei vede cosa si fa oggi quando si segna un gol? Io in carriera ho fatto duecentoventi gol e ogni volta, al massimo, abbracciavo il compagno più vicino mentre ci dirigevamo a centro campo. Adesso? Si aggrappano alla recizione, si mettono a ballare con la bandierina… ma che roba è questa? Io, quando vedo uno che si leva la maglia e si aggrappa alla recinzione, gli dico: ‘Ma dove vai, scemo?’. No, non mi piacciono queste esagerazioni”.

Parliamo un po’ di lei oggi. Intanto mi dica una cosa che, come si può capire guardandomi, mi interessa anche personalmente: ma lei come fa a mantenere il suo fisico così in forma?
“Palestra. Faccio palestra almeno tre volte la settimana e poi – e questo vale per tutti – mangio poco. Dia retta a me! Se lei mangia poco pane e beve poco vino e tutti i giorni fa una bella passeggiata, in poco tempo recupera la forma. E poi le porzioni! Mangiare di tutto, ma meno di quello a cui si era abituati. Vedrà che dimagrisce, creda a me! E proteine alla sera e carboidrati a mezzogiorno: questo dicono i dietologi”.

A questo punto formulo l’intimo proposito di seguire i consigli del Capitano, nella convinzione che la sua autorevolezza superi quella di qualsiasi dietologo. Chissà se saprò vincere la debolezza umana…

Anche in Argentina si mantiene in forma facendo moto?
“Sì. Mantengo sempre il mio fisico, anche se là è più difficile a causa dell’alimentazione. Loro mangiano molta carne e poi si siedono a tavola molto tardi la sera, cosa che a me non piace. E’ per questo che molti muoiono giovani. Troppe proteine sono nocive per organi come i reni e il cuore. Con la scusa che la carne costa poco, la cucinano in mille modi e si imbottiscono di proteine, trascurando i carboidrati. No, in Argentina bisogna sapersi regolare per stare in salute”.

Allora si trova meglio a vivere in Italia o in Argentina?
“Là o qua per me è uguale. Ho molti amici sia là che qua. Avevo due fratelli che, purtroppo, adesso non ci sono più, ma ho i miei nipoti e le loro famiglie che mi accolgono sempre volentieri. Vivono ancora a Rio Cuarto, provincia di Cordoba, dove sono vissuto da bambino, e quando ci torno è proprio come tornare a casa”.

Sa cosa si percepisce ascoltandola raccontare le sue esperienze di vita? Che lei ama la gente, ama stare in mezzo alla gente. E’ così?
“Sì, è così. Però io sono uno tranquillo, casalingo. Non mi piace la vita notturna. Amo la famiglia e gli affetti che vi si coltivano”.

La sua tranquillità si percepiva anche in campo: non a caso non fu mai espulso in tutta la carriera… Ma, se non le dispiace, torniamo un attimo a parlare di quando lasciò l’Argentina, nell’inverno del 1955, con in tasca il contratto dell’Inter.
“Come le dicevo, partii dall’Argentina a dicembre. Pensi come sono successe le cose: a settembre, alla fine del campionato in cui avevo vinto la classifica cannonieri, ero militare. Sempre a settembre ci fu il colpo di Stato di Lonardi che destituì Peron e attuò la cosiddetta ‘Revolucion libertadora’. Io, con la mia Compagnia, ero di stanza a Rosario e, assieme ad un’altra compagnia, venimmo mandati a Cordoba, lontana quattrocento chilometri, dove si era sollevata l’aeronautica. Cosa siamo andati a fare solo Dio lo sa! Pensi un po’: il soldato fa la guerra senza conoscerne il motivo, muore senza sapere perché: non è assurdo? Rimanemmo là una settimana, armati fino ai denti, senza sparare un colpo. Solo un paio di aerei vennero a mitragliare sui muri, noi andammo a difendere un’antenna radio in mezzo ai campi. Ad un certo punto arrivò la notizia che Peron se n’era andato dal Paese e così ricevemmo l’ordine di tornare a Rosario. Qui la gente ci accolse con entusiasmo, ci abbracciava come fossimo degli eroi. Ma noi non avevamo fatto niente! E io, nel frattempo, avevo già il contratto con l’Inter e non vedevo l’ora di partire per l’Italia. Solo che a dicembre si sollevarono i Peronisti e restammo consegnati in città, accampati in una piazza e, di notte, a coppie, dovevamo fare la ronda. Ecco, in una situazione come questa io pensavo al congedo, perché, se non arrivavo in Italia entro la fine del mese, il contratto scadeva. Ebbene, si verificò il miracolo: verso il 26, 27 mi firmarono il congedo, partii per Buenos Aires e, dalla piena estate argentina, in un paio di giorni, arrivai nel pieno inverno italiano”.

E così, dalla militanza nell’esercito argentino a quella nell’Inter: un bel salto di qualità mi pare.
“Erano tre mesi che non toccavo palla, ero solo e non sapevo una parola di italiano: mi ritrovo in un inverno a cui non sono abituato, la gente mi accoglie come fossi la stella del calcio mondiale: lei capisce bene che, tenendo anche conto che avevo vent’anni, un po’ di timore per il futuro lo sentivo”.

Il suo debutto in campionato contro che squadra avvenne?
“A Napoli, dove vincemmo 2-1 con un gol mio e uno di ‘Veleno’ Lorenzi. Poi, alla fine delle prime dieci partite avevo segnato otto gol. I giornali milanesi scatenati: ‘Massei meglio di Nordahl’; ma dicevano di quelle cretinate! Quando fummo a una decina di partite dalla fine del campionato, io tenevo d’occhio il capocannoniere, che era Pivatelli, del Bologna, con diciannove reti. Pensavo che, se avessi tenuto quel ritmo, avrei potuto prenderlo. Invece, alla quindicesima partita, in casa con la Roma, mi infortunai su un’entrata decisa del centromediano Stucchi”.

Allora era Meazza l’allenatore dell’Inter, vero?
“Sì. Era stato un grandissimo giocatore, tanto che lo stadio di San Siro porta il suo nome. Aveva sostituito Campatelli, ma non era tanto esperto come allenatore. Ci faceva fare un paio esercizi, poi la partitella, restando a guardarci, in disparte. Poi, nel 1957-58, arrivò l’inglese Carver, il quale non ci faceva nemmeno fare riscaldamento, ma subito partita, col rischio di stirarsi al primo scatto. Ferrero invece, quello famoso che non legò con Mazza, lavorava bene: esercizi con palla e senza palla e molta cura per la preparazione atletica. Per me è stato il migliore di tutti. Un altro che ho avuto all’Inter è stato Annibale Frossi, il quale tatticamente era molto preparato, ma atleticamente mica tanto”.

Quando venne a Ferrara a che punto era con il recupero dall’infortunio?
“Recuperato al cento per cento. Tanto che Mazza decise di ingaggiarmi dopo che mi aveva preso in prova per un torneo in Svizzera, dove mi fece giocare centravanti. Segnare con gli svizzeri era un gioco da ragazzi, perché loro giocavano in linea ed era facile saltarli. Insomma, in quel torneo dimostrai di essere in forma e il presidente non si lasciò scappare l’occasione. E così feci nove gol il primo anno e tredici il secondo”.

E il primo gol lo realizzò contro l’Inter: lo sentì come una rivincita?
“Nooo, assolutamente. A Moratti era dispiaciuto che io me ne fossi andato. Mi voleva bene il presidente, perché io ero uno disciplinato e con lui andavo d’accordo. Se non mi fossi fatto male, sarei rimasto sempre all’Inter. A quel tempo, col fisico integro che avevo, se avessi giocato nell’Inter, non avrei fatto meno di venti gol a stagione. Con l’Inter sei sempre sotto porta e di opportunità per segnare ne hai il doppio che in qualsiasi altra squadra”.

Pensi che cosa curiosa: esordì nell’Inter contro il Napoli e nella SPAL contro il Napoli, vincendo entrambe le partite.
“Eh, tra le grandi, il Napoli, o anche la Roma, riuscivamo a batterli spesso. Il Milan invece ci ha messo spesso in difficoltà. Dopo poi, se ci si metteva Lo Bello, che assegnava tre rigori al Napoli, allora avevamo poco da fare”.

Famosa quella partita: a Ferrara se la ricordano ancora.
“Quella domenica io non giocavo per infortunio. Ero in tribuna e tutte le volte che i napoletani entravano nella nostra area, lui fischiava rigore. Però devo dire che è stato un grande arbitro. Se a quel tempo ci fosse stata la moviola, penso che avrebbe avuto ragione spesso”.

A questo punto è come se il fischietto di Concetto Lo Bello, “Tiranno di Siracusa”, decreti il suo triplice stop, inducendomi a guardare l’orologio. L’ora mi dice che è tempo di ringraziare Oscar Massei per la sua squisita ospitalità e di congedarmi da lui. La fase del commiato sarà tuttavia piacevolmente lenta, per l’alternarsi di amici che furono suoi compagni in tante epiche battaglie.
Gli sovviene di Erwin Waldner, il centravanti tedesco che deluse le attese e spianò la strada a quel Silvano Mencacci che un giorno affossò l’Inter di Herrera e un altro fece quattro gol a Zoff; poi ecco Carlos Caesar De Souza, il brasiliano che esordì a Marassi con un gol, ma che non legò mai con Mazza; poi Armando Picchi e Costanzo Balleri, la coppia di livornesi che furono tra le colonne della formazione del quinto posto; e il grande Sergio Cervato, libero dalla punizione fulminante; e Carlo Dell’Omodarme e Carlo Novelli, due veri amici, coi quali condivise gran parte del tempo libero; e Osvaldo Bagnoli – il grande Osvaldo -, che si ripromette di andare a trovare prima del prossimo ritorno in Argentina; poi Muccini e Micheli, che non ci sono più, ma che vivono nel suo cuore; e i giovani: Capello, Reja, Pasetti, Bertuccioli, Bosdaves, riguardo ai quali lui e Bozzao avevano visto giusto a consigliarli a Mazza. – Il Presidente, infatti, prima di acquistare i giovani in prova, incaricava loro due, uomini di esperienza, di esprimere un parere su di essi -; e il Bozza stesso, persona socievole e di straordinaria umanità-
E’ dunque tra questi indugi sugli affetti di una vita – o forse di due vite, la sua e la mia – che mi separo da Oscar Massei. Durante il viaggio verso casa, la mia mente non cessa di fantasticare su quei campioni della mia gioventù che ora mi sembra di poter includere tra i miei amici, assieme al nostro grande Capitano.