Avete presente “Canto di Natale” di Dickens? Con quella storia del fantasma dei Natali precedenti? Ecco questa è la sensazione che ho provato al triplice fischio di SPAL-Frosinone. No, non mi sono assolutamente dimenticato la categoria ed il palcoscenico, ma ho assaporato un retrogusto di SPAL-Taranto degli anni Novanta. E non parlo del risultato. Parlo del clima, del sapore, del dolore ai polpacci. Nessuno di noi deve mai dimenticare chi siamo e quali mefitici stagni abbiamo calpestato per arrivare fino a qua. Essere spallini non vuol dire essere tifosi, è molto altro.
Io sono nato nel settembre dell’esordio del Cerbiatto in terza serie. Ho visto la SPAL perdere contro squadre probabilmente inesistenti, ho visto la mia squadra mancare traguardi già raggiunti, sono nato calcisticamente nella sofferenza. Figuriamoci se mi fanno paura tre pappine dal Frosinone. Epperò mi viene da dire che le squadre alla nostra portata non sono alla nostra portata: quando dobbiamo far ballare la scimmia ci si inceppa l’organetto, andiamo forse meglio alla garibaldina, siamo degli incassatori che alla fine spezzano il polso di chi ci picchia. Con la faccia. Non riusciamo a dirigere. Ho avuto pure un rigurgito di rassegnazione e di scoordinamento all’interno della mia curva. Il sacro fuoco è rimasto nelle prime file della Ovest. Ma scusate, c’era qualcuno che pensava fosse facile? Avevamo immaginato Pep Guardiola col taccuino che si nascondeva tra le siepi del centro di via Copparo per copiare il tiki taka estense?
La sofferenza fa parte di noi e chi se lo è dimenticato è pregato andare su Wikipedia e leggere la storia della SPAL degli ultimi cinquanta anni. Abbiamo invertito l’ordine dei fattori: abbiamo vinto una partita già persa e perso una partita già vinta. Occorre ricominciare, ripartire subito. In campo i ragazzi hanno sudato, hanno provato, ma in molti di loro non ho visto il luccichio del killer. Guai a pensare di essere diventati bravi, in punta di piedi si balla alla Scala, non sul prato del Paolo Mazza. I pali ci odiano, e questo è una costante, ma ciò non toglie che noi dobbiamo essere di più, in campo e sugli spalti. La curva è come una banda popolare, non basta che le prime file cantino e portino la croce, tutti i componenti, devono fare la propria parte. Un muro con un mattone sì e un mattone no, crolla. Appena abbassiamo la guardia, prendiamo sganassoni, non ce lo possiamo permettere, servono cuore, grinta e testosterone. Ripartiamo.
Domenica, appena entrato in curva, la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare giù dai ragazzi ad acquistare una bellissima maglietta XL. Su quella T-shirt, emerge la bella faccia di un ragazzo, che potrei essere stato io, che potrebbe essere stato mio figlio, capelli neri, occhi scuri penetranti, l’immagine della vita, della speranza, della gioia, del ricordo e della memoria. Come tutti noi habitué, ho l’armadio pieno di magliette della curva Ovest, ma l’ultimo acquisto mi rende particolarmente felice ed orgoglioso, di poter mostrare a tutti che la giustizia e la verità non possono essere daspati, la luce negli occhi di quel ragazzo non è stata spenta quella notte in via Ippodromo, brilla e rimane accesa negli occhi di tutti noi. Non è facile, ma noi siamo spallini, nessuna discesa sarà bella quanto le nostre salite. Forze vecchio cuore biancazzurro.